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 Pesca di Prato, un viaggio tra passato e presente

Gelato alla Pesca di Prato, il nuovo affianca la tradizione

Un dolce che racconta un territorio, un gelato che ne rinnova la narrazione. A farsene portavoce, la Pasticceria Nuovo Mondo di Paolo e Andrea Sacchetti e Badiani Gelateria di Paolo Pomposi, punto di riferimento per il gelato artigianale sin dal 1932. Dalla collaborazione di queste due eccellenze toscane è nato il gelato alla Pesca di Prato.  “La Pesca di Prato – dichiara Paolo Pomposi – rappresenta un patrimonio gastronomico che merita di essere raccontato anche attraverso il nostro gelato. Ci metto dentro la pesca frullata, per ricrearne il sapore e dare vita ad un gusto che sorprenda”. Novità e tradizione insieme, Pesca di Prato è un nuovo modo di vivere la tradizione.

Pesca di Prato, simbolo di una città

Perché di tradizione si parla, la prima volta che Pesca di Prato è stata servita risale all’Unità d’Italia. “Nel corso di una cena tra massoni per festeggiare la raggiunta Unità racconta Paolo Sacchetti il locandiere ha servito due palline di pane dolce inzuppate in una bagna all’alchermes, con sopra una ciliegia” Un dolce ormai fatto dappertutto in Italia, ma le cui origini sono rigorosamente pratesi. Tornato a nuova vita, oggi è una delle creazioni più rappresentative di Pasticceria Nuovo Mondo. La Pesca di Prato è parte della mia storia personale e del lavoro della mia famiglia. Un simbolo che parla di Prato, della sua gente e delle sue radici. Vederla oggi reinterpretata da un maestro gelatiere come Paolo Pomposi è motivo di grande orgoglio”

Componente alcolica, elemento irrinunciabile

Tanti sono i modi di fare questo dolce, dalla Pescamisù (che prende ovviamente spunto dal tiramisù) alla versione al cioccolato o con lo zabaione oppure all’arancio. Paolo Sacchetti di Pasticceria Nuovo Mondo unisce le due semisfere di 12g di soffice pasta brioche, bagnate in 12g di Alchermes, con una delicata crema pasticcera. “Da anni la pasticceria italiana ha diminuito la componente alcolica. Dovuto al fatto che l’alcol non è più necessario a conservare i dolci come in passato, quando mancavano i frigoriferi. Ma la componente alcolica rimane comunque importante, nei dolci da freschezza e predispone lo stomaco al consumo. Perciò le mie pesche hanno una inzuppitura sui 14°”

Un dolce che travalica i confini

E’ un dolce che ho portato tante volte in televisione – prosegue Paolo Sacchetti – addirittura una volta la televisione britannica è venuta fino a Prato a fare un servizio sulla mia pasticceria” Un dolce, la Pesca di Prato, che ha infatti da tempo travalicato i confini regionali e nazionali. Come ricorda lo stesso pastry chef. “Nel 2008 facemmo una scuola di pasticceria a Prato in collaborazione con il Consorzio Pasticceri Pratesi ed invitammo un grande pasticciere spagnolo. Durante la cena, ogni partecipante presentava un proprio dolce di battaglia, ovviamente io presentai le pesche. E lui disse che le faceva quando era apprendista” Notorietà certamente gratificante, ma Paolo Sacchetti rimane fedelmente ancorato alle sue origini toscane.

Paolo Sacchetti, dal 1989 punto di riferimento a Prato

Classe 59, fiorentino di nascita e pratese di adozione, nel 1976 si diploma perito meccanico per accontentare il papà che lo sogna dipendente della Nuova Pignone. Ma la passione per i dolci, che si trascina sin da bambino, emerge prepotentemente. “Negli anni 80 ho fatto esperienze in diverse pasticcerie fiorentine, diventando anche primo pasticciere alla Pasticceria Barunci che oggi purtroppo non esiste più” Poi, nel 1989, la svolta con l’apertura della sua pasticceria. “A Prato ormai le pasticcerie avevano ridotto la produzione, che nel pomeriggio finiva nel congelatore. Ho portato un nuovo mondo, sono stato il primo a fare la pasticceria mignon. E ho inventato un cremino, che cuocevo a ritmo continuo. E’ stato la mia fortuna

Mai restio alle novità, dal Biscotto del Papa al Panettone a bauletto

Storico Vice Presidente di AMPI, nella associazione fondata nel 1993 da Iginio Massari è cresciuto professionalmente dimostrandosi mai restio alle novità. “Ho ideato un pan di spagna farcito con una specie di crema chantilly, per l’apporto contenuto di panna. Inzuppato con liquore al chassis e fragola frullata, viene farcito di pezzi di frutta fresca e brevemente congelato. Quando si va a mangiarlo, alla cremosità della crema pasticcera si aggiunge la dolcezza del pan di spagna bagnato. Cose oggi normali, ma trent’anni erano una novità” Tra le altre, anche il Biscotto del Papa ideato in occasione della visita di Papa Francesco a Prato. Ma soprattutto un panettone del quale è molto orgoglioso. “Vent’anni fa – conclude Paolo Sacchetti – facevo un panettone a bauletto con i fichi secchi di Carmignano, le noci e sopra una glassa ai pinoli. Lo vendevo tutto l’anno, è stato un mio grande cavallo di battaglia

Rosa Grand, versatilità all’ombra della Madonnina

Rosa Grand, tre realtà complementari

Ne richiama addirittura i colori, con la sua facciata in marmo bianco e granito rosa. Centralissimo, a pochi metri (nel vero senso della parola) dal Duomo di Milano, Rosa Grand è struttura ricettiva con una offerta gastronomica versatile e completa. Tre realtà diverse ma complementari riunite sotto lo stesso tetto e aperte a tutti. Dal Grand Lounge & Bar, salotto urbano dedicato all’aperitivo ma attivo già dal momento delle colazioni, al Rose Pizza & More, pizzeria contemporanea ma informale. Fino al Ristorante Sfizio, rigorosamente rispettoso della tradizione ma aperto ad una visione contemporanea. Riunite nell’unico obiettivo di accontentare le esigenze di un pubblico variegato.

Tradizione lombarda, con qualche ritocchino

Vogliamo raccontare la tradizione culinaria milanese e lombarda, senza tralasciare i classici della cucina italiana. Con rigorosa osservanza dei canoni di ogni singola ricetta – racconta Chef Bruno Cefalà, da otto anni alla guida della cucina di Ristorante Sfizio di Rosa Grand – Non ha senso reinterpretare un piatto, se la tradizione lo ha fatto arrivare a noi già buono”. Il menù è quindi pensato tanto per il turista quanto per il cliente locale che va alla ricerca, ad esempio, di un risotto alla milanese fatto come si deve. Unica eccezione alla tradizione milanese è la costoletta, rivisitazione comunque della cotoletta. “Il taglio è quello tradizionale, un lombo di vitello alto tre centimetri e servito rosa al cuore. La cottura è rigorosamente nel burro chiarificato. A cambiare è la panatura, fatta con pane panko che limita l’assorbimento dell’olio nella carne e grissini homemade tipo pangrattato. Per creare una panatura croccante“.

Milano nel cuore, ma c’è anche il Raviolo dello Chef

Tutta la proposta di Chef Bruno Cefalà si basa sul concetto di “Km Italia”, riflettente una visione inclusiva della filiera corta. La selezione degli ingredienti privilegia la prossimità geografica, con la maggior parte dei prodotti provenienti da Lombardia e territori limitrofi. Con Milano nel cuore, Ristorante Sfizio non trascura però i piatti che hanno fatto la storia della cucina italiana. Ecco allora che in carta si trova, oltre al classico risotto ai pistilli di zafferano, l’intramontabile tiramisù. “Savoiardi, mascarpone e caffè. Niente di più, niente di meno” Ricerca attenta di ogni ingrediente , spesso condotta personalmente dallo chef. Come dimostra il “Raviolo dello Chef”, proposta che ne tradisce le origini. (Bruno Cefalà è originario di Lamezia Terme, ma ormai milanese di adozione). “Il ripieno è a base di ricotta e n’duja di Spilinga, fichi e battuto di fave. Viene condito con una spuma di baccalà al finocchietto”.

Risotto alla liquirizia, esempio virtuoso di economia circolare

Ogni piatto riflette una cura estrema per il dettaglio, con un approccio che mira ad una sostenibilità concreta. In una proposta creativa come il risotto alla liquirizia e gambero rosso di Mazara del Vallo, ogni elemento viene nobilitato senza sprechi. E diventa un esempio virtuoso di economia circolare. “La polpa del gambero – spiega Chef Cefalà – viene marinata e messa cruda sul risotto mentre il carapace, insieme a sedano, carote e cipolle, viene fatto andare in pentola con acqua e ghiaccio per fare una classica bisque che bagna il risotto. La polpa della bisque che rimane viene messa in forno, seccata e da essa ricavata una polvere con la quale viene cosparso il risotto”.

Mio Inizio, omaggio alle domeniche in famiglia

Tra i piatti signature, il “Mio Inizio”. Un piatto del quale Chef Bruno Cefalà va particolarmente fiero perché trae ispirazione dai ricordi di infanzia legati alla cucina della nonna e alle domeniche passante in famiglia da ragazzo. Un gesto familiare trasformata in una esperienza ricercata. In pratica, si tratta di una melanzana tagliata a metà, bollita e svuotata a mò di barchetta. Riempita con ragù a base di salsiccia fresca e orecchiette fatte a mano e saltate nell’olio, passa in forno a gratinare. Fuori dal forno, viene cosparsa con una colata di provola fusa. “Mio Inizio è un pezzo di cuore che metto nel piatto”. A completare l’offerta di Sfizio, proposte stagionali come le zucchine trombetta marinate con tofu, pomodorini e polvere di olive nere oppure tartare di branzino con mele verdi, pistacchi e salsa alle ostriche. Non mancano opzioni vegetariane e vegane, pensate per coniugare leggerezza e gusto.

Non solo Sfizio

Rosa Grand non è solo Sfizio Ristorante. Si parte con la colazione servita al Grand Lounge & Bar dalle 6:30 alle 10:30, aperta anche agli ospiti esterni su prenotazione. Oltre all’ampia selezione di pasticceria, spiccano yogurt, marmellate, composte e formaggi lombardi. Per un inizio all’insegna del gusto e dell’autenticità. Avete voglia di pizza? Pronto ad accogliervi, c’è il Roses Pizza & More, la pizzeria contemporanea dall’ambiente conviviale e informale affacciato sulla storica Piazza Beccaria. Con sempre tanta attenzione alla leggerezza, gli impasti sono realizzati con farina di soia. Iconica, la “Rosa Grand”. “Infornata con il solo pomodoro. vengono aggiunti a freddo il crudo di Parma DOP, mozzarella di bufala, funghi porcini freschi saltati e rucola. Una delle primissime pizze messe in carta, che portiamo avanti tuttora”. Ma la giornata non finisce qui. Per un cocktail prima di cena, si fa tappa ancora al Grand Lounge Bar.

Grand Lounge Bar, omaggio a Milano

Il menù cocktail è strutturato intorno ad una idea tanto semplice quanto efficace, raccontare Milano attraverso i suoi quartieri. “La drink list è un omaggio a Milano spiega il Bar Manager Alessio Mei – Ognuno dei dieci cocktail prende nome da un quartiere della città”. Accanto a ciascun drink, una breve narrazione introduce il quartiere creando un ponte tra gusto e geografia. Tra le proposte signature più rappresentative, ovviamente “Duomo”. Un cocktail, dal finale deciso e persistente, che ruota attorno ad una base di gin speziato impreziosito da una nota di wasabi. “Di fondo è un Martini shackerato ma al posto del gin classico abbiamo messo gin infuso al wasabi e un bitter al pompelmo. Ideale per aprire lo stomaco, insieme a qualche stuzzichino proposto dal bar come tartellette con tartare di salmone o paninetti alla zucca farciti di formaggio”.

Un viaggio gastronomico che riempie la giornata

Nella drink list, tra gli altri, anche “Sempione” e “Martesana”. Nel primo, le note balsamiche del basilico si fondono a note agrumate e sfumature vegetali. “Utilizziamo una vodka infusa al lemon grass e liquore al sambuco. E’ un cocktail molto fresco che si abbina bene ad una tartare di ricciola e a tutti i crudi di pesce”. Il secondo è una rivisitazione di un Old Fahioned. “Fatto con whisky italiano e bitter alla genziana, si abbina a carni importanti come agnello e selvaggina.” Una particolarità, whisky, vodka e gin sono tutti di provenienza italiana. Per gli amanti del no alcohol la scelta è invece tra sciroppi fatti in casa, cordiali al cetriolo con limone, menta, zucchero e soda. Oppure un succo di curcuma con agave, lime, passion fruit e kombucha. “Negli anni l’aperitivo è cambiato molto – conclude Alessio Mei – Bisogna dare credito al mondo analcolico”. Rosa Grand, tre realtà complementari per un viaggio gastronomico che riempie la giornata.

Il Lughino, la creatività incrocia l’artigianalità

Il Lughino, tutto é fatto a mano

Nel locale di Chef Paolo Sanvito, tutto è fatto a mano. A testimoniare l’estrema freschezza dei piatti e l’artigianalità che contraddistingue il quotidiano lavoro della cucina, mancano impastatrice e congelatore. Valori fondanti del ristorante, che fa uso esclusivamente di ingredienti vegetali, sono sostenibilità nei confronti dell’ambiente e rapporto diretto con i piccoli produttori certificati biologici. Riso e molti legumi, per esempio, provengono dal Pavese mentre le farine da uno storico mulino a pietra nel cuore delle Langhe. Un locale, Il Lughino di Via Solferino 12 a Milano, nato per essere un posto unico nel suo genere. A cominciare dal nome, inventato per indicare un posto che non esisteva. “Esprime accoglienza e calore. Il Lughino è pensato – sottolinea Paolo Sanvito – per un consumatore attento e consapevole, per il quale l’artigianalità delle lavorazioni, l’impiego delle materie prime biologiche e la sostenibilità ambientale sono elementi particolarmente rilevanti

Menù mai scontato

Il menù cambia spesso nell’arco della stessa giornata (Il Lughino è aperto dalle 11:30 alle 23:00), proponendo cibi sempre freschi. Protagonista è la lasagna, declinata in decine di varianti diverse nel corso dell’anno. Tutte a base vegetale e ispirate alla stagionalità. “Ogni giorno prepariamo tre o quattro tipologie diverse, per un massimo di venti porzioni l’una. Finite, si impasta di nuovo con ciò che la dispensa offre” Nulla è quindi scontato. Per orientarsi, una classica lasagna alla bolognese fatta con un ragù cucinato in maniera tradizionale ma con un ingrediente non convenzionale come il granulare di soia. Oppure quella alle melanzane con aggiunta di pomodoro e mentuccia fresca. Per salire di intensità, quella con la cipolla. “Nel primo strato mettiamo la cipolla bianca cotta a lungo perché resti morbida e delicata. Nel secondo mettiamo il fagiolo nero cotto e frullato, in aggiunta alla besciamella che prepariamo con latte di avena”

Lasagna, piatto cardine

Se finite, nessun problema. Si può trovare la versione con zucca, besciamella vegetale e tofu affumicato o ancora quella con melanzane grigliate, crema di ceci e basilico fresco. Ad accompagnarle, il coperto consistente in pane fatto in casa e impastato a mano con farina integrale e lievito madre. “Lo prepariamo in in tre versioni, semplice, alle olive, alla noci e uvetta” La lasagna rimane quindi a tutti gli effetti il piatto cardine della proposta de Il Lughino. “La lasagna mi ha sempre accompagnato, è la prima immagine che io ho di me in cucina. Una macchinetta al tavolo, mia mamma che tira la pasta, io che la aiuto a mettere il ragù nelle lasagne. Ci definiamo lasagneria artigianale, non per questioni di marketing ma perché la lasagna rappresenta veramente l’essenza di me e della mia cucina.”

Lasagneria artigianale certamente, ma c’è tanto altro

Ma se definire Il Lughino lasagneria artigianale è corretto, può risultare limitativo di una offerta variegata e sempre gustosa. Non si può non menzionare, tra gli antipasti, la delicatissima insalata russa o il cipollotto bianco novello arrosto con purè di fave. “Strizza l’occhio alla tradizione del Sud. Sorprendente, per chi ama i sapori forti “ Se si vuole rimanere tra i primi, si può gustare un raviolo con ripieno di erbette, tofu e anacardi accompagnato da peperoni, zucchine, cipolle e carote serviti alla julienne. Oppure fusilli di grano antico in salsa di noci ma anche una sfogliatina di crespelle di farina di ceci e scarola. Senza dimenticare la millefoglie di melanzane, zucchine, pomodori e tofu, versione alternativa della parmigiana. Melanzane e zucchine vengono prima fritte, poi assemblate insieme al pomodoro. Mentre al posto della mozzarella metto il tofu fatto in casa, mischiato con un poco di anacardi”

Roveja, la particolarità

E’ ora la volta dei secondi, tra i quali non si può non citare il mondeghilo servito con fagiolini cornetti in umido. “Reinventato, lo cucino un ragù bianco con soia e seitan. Quando è insaporito, dopo un’ora di cottura, aggiungo l’impasto. Fatto con verdure, pangrattato, frutta secca, limone, prezzemolo e un poco di farinata di ceci. Morbido e profumato, viene servito su un giardinetto di porri” In alternativa, arrosti di seitan e tofu alla piastra. E soprattutto legumi, che Paolo Sanvito sperimenta in varie forme. “L’Italia è piena di legumi straordinari. Le cicerchie, per esempio, si possono frullare in poco olio evo e un pizzico di aglio che da una marcia in più. A volte le finisco con salvia e pomodoro” Una particolarità, pressoché rara a Milano, la roveja. “Una autentica scoperta, con la farina di roveja preparo un rotolo di spinaci e porri dal gusto veramente intenso”

Tiramisù la sorpresa, semifreddo di castagne l’orgoglio

In conclusione, i dolci. Si spazia dalla torta di mele, con aggiunta di nocciole e farcitura di crema al cocco, al pan di spagna con farcitura di crema di mandorle e frutta fresca messa al momento. Fino alla torta paesana ricoperta di cioccolato caldo e la torta di albicocche con granella di mandorle nell’impasto. Se si cerca freschezza, un gelato alla vaniglia e mandorla con lamponi e mirtilli freschi. Sorprendente il tiramisù. “Ho creato una crema con latte vegetale e frutta secca. Sostituisce validamente il mascarpone e appaga chi cerca la complessità del tiramisù Orgoglio di Paolo Sanvito è però il semifreddo di castagne. “Utilizzo il 70% di castagne, zucchero di canna grezzo, cacao, cioccolato, liquore all’amaretto. E poca margarina fatta con burro di cacao e semi di girasole” Cosa altro dire? Il Lughino è piacere puro, la creatività sposa l’artigianalità più vera. ”Venire da Il Lughino – conclude Paolo Sanvito – deve essere una festa, appagamento non solo del palato

Mio Lab, drink list tra tradizione e innovazione

Mio Lab, una storia lunga più di venti anni

Una storia lunga, da più di 20 anni Mio Lab porta avanti un discorso di internazionalità basata su capisaldi come Negroni, Americano, Bellini, Bloody Mary. “Siamo da sempre apprezzati per il nostro Bloody Mary, che facciamo anche in versione rivisitata con il pomodorino giallo e la mostarda in grani – afferma Alessandro Iacobucci Vitoni, da sette anni Bar Manager di Mio LabMa anche per la particolarità di impiegare sode realizzate da noi nell’Americano e nel Negroni, quest’ultimo fatto solo con gin italiano” Una storia importante, in linea con il percorso compiuto da Alessandro Iacobucci.

Alessandro Iacobucci, Bar Manager di Mio Lab

Affascinato sin da bambino dalle livree bianche dei barman, intraprende molto presto la strada della mixology. Dopo l’istituto alberghiero e alcune esperienze sulle navi da crociera, approda alla corte di Antonio Beccalli. La location è il Belmond Hotel Splendido di Portofino, dove si ferma quindici anni. “Sono stati – ricorda il responsabile del cocktail bar di Park Hyatt– quindici anni bellissimi, a fianco di un barman che a 70 anni stava ancora dietro il bancone. E dal quale ho imparato tantissimo. Oltre ad avere avuto la possibilità di viaggiare per il mondo, nei quattro mesi di pausa della stagione, e soddisfare così la mia sete di conoscenze” Conoscenze delle quali ha fatto tesoro, trasferendole nella esperienza a Mio Lab.

Bottigliera importante e attualizzata

Mi piace rimanere aggiornato, ho arricchito la bottigliera di 150 etichette” In questo aggiornamento il whisky ha avuto e ha tuttora uno spazio importante. “Al mio arrivo in in Mio Lab, in carta c’era un solo whisky giapponese. Oggi ne abbiamo sei tipi diversi” Complessivamente Mio Lab conta 300 etichette tra whisky, cognac, armagnac, porto, rum, grappe e liquori. E altro, come tequila e mezcal. “Tequila, mezcal e rum stanno avendo un ritorno importante, soprattutto il rum che sta vivendo una seconda vita”

Classic Collection e Contemporary Collection, freschezza prima di tutto

Alessandro Iacobucci e Mio Lab rinfrescano così la drink list. Attraverso l’introduzione nella Classic Collection di due categorie, Mule e Sour, che affiancano Negroni e Americano e un arricchimento della Contemporary Collection con due nuovi drink. A cavallo tra rispetto della tradizione e voglia di innovazione. “Abbiamo rivisitato il classico Mule, sostituendo la vodka con la tequila o con il rum” Tra le novità, George. Composto da tequila infusa al cetriolo, lime, menta e ginger beer. Cetriolo e menta accendono la bevuta di note verdi e balsamiche, il risultato è un cocktail dissetante” Omaggio ad un simbolo del Made In Italy è invece Mule 1525. Gli ingredienti sono Flor de Caña 7 anni, lime, ginger ale e Disaronno. “Rum e Disaronno si fondono in un equilibrio morbido e speziato, inaspettato. Un tributo a Disaronno nell’anno in cui ricorrono i 500 anni dalla nascita”

Mondo Sour, le novità

Il Souer è l’arte del bilanciamento. Anche se si beve tutto l’anno, Mio Lab ha introdotto tre varianti nelle quali alcol, limone ed albume danno vita a cocktail cremosi ed avvolgenti. Il Pulcinella è composto da un gin glass infuso allo zafferano, limoncello, limone, sciroppo di vaniglia e albume. Nel Mayatl protagonista è il mezcal accompagnato da limone, sciroppo di pepe verde, zenzero, basilico e, naturalmente, albume. “Un gioco di contrasti, nel quale l’affumicatura del mezcal dialoga con la freschezza del basilico e la vivacità dello zenzero” Decisamente particolare è lo Zang’s. Un bourbon whiskey aromatizzato al croissant miscelato a limone, miele, lamponi, bitter al cioccolato, albume. “Particolarità dello Zang’s è proprio questo bourbon aromatizzato che lascia un bel retrogusto di croissant. Mentre miele, lamponi e bitter al cioccolato rendono il drink corposo ma molto fresco. Agrumato, aromatico e amaro al punto giusto, è perfetto a ogni ora del giorno”

Gongfu Cha, omaggio alla cerimonia del tè

Nel suo viaggio creativo, Mio Lab prosegue con due nuovi cocktail che arricchiscono di suggerimenti internazionali la Contemporary Collection. Il primo è Flower Moon, composto da Gin Roku infuso al lampone e lemongrass, maraschino, liquore di violetta e pompelmo rosa è un cocktail floreale e fruttato, servito in coppetta con bordo salato. “Una esperienza aromatica che richiama i profumi di un giardino fiorito in primavera” Decisamente da provare, il Gongfu Cha a base rum. Un richiamo ed un omaggio, in versione cocktail, alla cerimonia del tè cinese. Servito, ovviamente, in una tazza da tè di colore verde. “E’ un drink leggermente agrumato con una nota bitter, particolarmente apprezzato dalla clientela internazionale che vuole provare qualcosa di diverso. Oltre al rum, usiamo cartizze, limone, bitter all’arancia e un infuso di tè bianco al lemon grass

Signature e analcolici, punti fermi

Punti fermi della drink list di Mio Lab rimangono comunque i signature. Uno di questi è Mr Smith. Ispirato dal Negroni, è preparato con whisky invecchiato 18 anni, Bitter Campari, vermouth, sherry e soda. “Dedicato al primo proprietario della Distilleria The Glenlivet” Il Negroni è costante fonte di ispirazione, in lista si trovano sovente nella stagione autunnale un Negroni o un Americano in barrique. Non meno importanti sono i drink analcolici a base di pesca, arancia, limone, anguria, mango, lime. Tra i quali, il NR.1 a base di anguria è molto apprezzato dalla clientela. Fresco, con una nota sour data dal bitter analcolico. La preparazione viene fatta al mattino per la giornata, il giorno dopo si fa tutto da capo.Usare solo prodotti freschiconclude Alessandro Iacobucci Vitoni – è una nostra prerogativa, per dare sempre un servizio top all’ospite. Perché la gestione dell’ospite è importante, l’ospite si deve ricordare della esperienza vissuta a Mio Lab”

Succulenta, ristorante che non segue le mode

Succulenta, i fornelli della nonna sono l’ispirazione

Una storia che comincia in terra di Puglia, tra i fornelli della nonna che, giorno dopo giorno, imbastisce pranzi e cene per dieci figli sempre con lo stesso amore. Proseguendo con la mamma chef e il papà pizzaiolo, sullo sfondo il ristorante di famiglia dove Matteo Mottola svolge inevitabilmente i primi passi nel mondo della ristorazione. “All’inizio – racconta Matteo Mottola, oggi titolare di Succulenta in P.zza VI Febbraio 16 a Milano – era una piccola osteria che faceva anche da bar, potevi ordinare piatti caserecci come trippa e polpette” Poi, quindici anni fa, l’arrivo a Milano con esperienze da Sorbillo e Pizzium come pizzaiolo. “Sono stato fortunato, ho avuto la possibilità di crescere e sperimentare, da Sorbillo ho anche avuto la possibilità di curare l’apertura del punto vendita in Duomo

L’importanza della famiglia

Scegliere questa strada è stato naturale, sono cresciuto in cucina seguendo le mani di mia mamma dalla quale ho ereditato la velocità e la capacità di organizzazione. Così come da mio papà ho appreso una certa giusta severità per l’ordine e la pulizia. Dalla cucina, a fine servizio, non va via nessuno fino a quanto non è tutto a posto e pulito” Ma non meno importante è la figura della nonna materna, della quale Matteo conserva un ricordo indelebile. “Non c’è mai stato giorno nel quale non preparasse le pietanze con invariato piacere e amore per l’impiattamento. Indistintamente che si trattasse di pasta e ceci piuttosto che fave e cicoria, pasta e patate piuttosto che il brodo con pezzi di carne di maiale. O del ragù, per il quale si alzava alle sei di mattina per preparalo con tanta cura

Un legame profondo con la cucina di casa

Piatti semplici, senza fronzoli. La stessa semplicità che oggi Matteo Mottola ripropone nel suo Succulenta, inaugurato tre anni fa. Ventotto coperti interni, una ventina nel dehor esterno. A dominare la sala interna, le pareti con due gigantografie. Una riproducente una strada di Sorrento, l’altra riproducente il centro medievale di Sovana che tanto gli ricorda una piazza di Villa Castelli, il paese natio. Già, perché i ricordi di infanzia sono una componente importante nella proposta offerta da Succulenta. Ogni ricetta racconta infatti il legame profondo con la cucina di casa, realizzata con materie prime selezionate. Per approdare ad un viaggio culinario che spazia nei sapori del Sud Italia, con qualche divagazione. Più per motivi personali ed affettivi che per una precisa scelta tecnica, come vedremo più avanti.

Spazio anche per la sperimentazione, Regina Succulenta l’esempio

La mia idea di cucina fonde ricordi e tradizioni di famiglia, Ma anche tanta ricerca, mi piace studiare impasti, tipologie di farina e lavorazioni diverse. Mi piace sperimentare, perché non si finisce mai di imparare” La pizza ricopre ovviamente un posto importante nella proposta di Succulenta, tra le ventidue pizze e i due calzoni presenti in carta spiccano Regina Succulenta e Genovese Napoletana. La prima con crema di patate, provola affumicata di Agerola DOP, guanciale croccante, pomodorini del Piennolo e scaglie di cacioricotta. La seconda invece ripropone sulla pizza il ragù bianco di carne e cipolle, tipico della cucina partenopea. “Il nostro impasto è un impasto molto particolare, è una biga viene preparata con farina, acqua e lievito madre. Il giorno dopo viene terminato con acqua e sale, stagliata in panetti per usare le palline dopo circa 13 ore. Con una lievitazione totale di circa 70 ore

Puglia e Campania, un viaggio tra i profumi del Sud

La cucina è un continuo viaggio tra Puglia, regione natia di Matteo Mottola, e Campania. Pugliesi sono le orecchiette di Cerignola alle cime di rapa e le polpette al ragù preparate con carne rigorosamente Podolica. Campani sono gli ziti alla genovese realizzati con una specifica tipologia di manzo e la cotoletta alla napoletana preparata con un carré di maiale battuto, farina, uovo, pane e olio. Pietanze accompagnate da un Primitivo o un Negroamaro, giusto per rimanere in zona. Rigorosamente campani i dolci, tra pastiera, babà e delizia al limone. Ma non manca il classico tiramisù e la tartin di mele che omaggia la città di Milano. Anche qui spazio alla sperimentazione, ecco allora la cheesecake ai frutti di bosco rivisitata. “E’ fatta con more, mirtilli, fragole e lamponi freschi. Sopra aggiungo una fogliolina di basilico e lo zucchero a velo. Perfetta da abbinare ad una barricata od un passito”

Qualche piccola divagazione, tra passioni ed affetti

Non solo Puglia e Campania, in carta si trovano anche i fusilli alla n’duja realizzati con fusilli di semola di grano duro tirati a mano e prodotti a Gragnano. E, per rimanere in terra calabra, la Spirilunga. Pizza fatta con patate al forno, l’immancabile n’duja e sbricciolata di taralli. Ma se l’amore per il Sud Italia è cosi prorompente, perché in carta si trovano piatti di estrazione laziale come spaghetti alla carbonara e spaghetti alla amatriciana? “Mi piace il maiale, preparo anche un raviolo ripieno di carbonara con sopra parmigiano reggiano e guanciale croccante” Può poi sembrare strano trovare pietanze sarde come cullurgiones, proposti anche nella variante con ripieno di patate e menta, e seadas. ma c’è un motivo molto preciso. “Mia moglie è sarda, seadas è il suo dolce preferito. Questi piatti sono un omaggio a lei e alla sua regione di provenienza” Succulenta, un ristorante che non segue le mode mai i sentimenti.

Cantine Colosi, viticoltura eroica

Cantine Colosi, tutto parte da Salina

Il primo a commercializzare il vino è il bisnonno, con il suo carretto porta in giro il vino acquistato dai vignaioli locali. Ma ad avviare una vera e propria produzione sono il nonno Pietro ed il papà Piero, entrambi originari di un paesino sopra Milazzo. Con alcuni studi enologici alle spalle, gettano le basi dell’azienda. “La zona di Messina era poco vocata alla produzione di vino – racconta Pietro Colosi, attuale titolare di Cantine Colosi insieme alla sorella Marianna – Così mio nonno comincia ad interfacciarsi con i contadini dell’Isola di Salina e scopre una intensa produzione di Malvasia delle Lipari.” Da qui, l’acquisto dei primi terreni nell’isola eoliana verso la fine degli anni ‘70.

La prima vendemmia nel 1983

Dopo essersi dedicato per un anno alla coltivazione della Malvasia, il nonno inizia a coltivare Inzolia, Cataratto, Nerello Mescalese e Nerello Cappuccio. Una ricerca continua, anche di terreni coltivabili, che negli anni ha portato, grazie anche agli investimenti di papà Piero, ad avere nell’Isola di Salina circa 13 ettari vitati ed una produzione intorno alle 500.000 bottiglie annue. “La prima vendemmia ricorda il titolare di Cantine Colosi – è del 1983, il risultato è stata una Malvasia declinata in due versioni. Una classica, surmaturata in pianta, l’altra passita, prodotta con appassimento dell’uva sui cannizzi per circa venti giorni perché perdesse il 30-40% del peso” Presentate due anni dopo al Vinitaly, negli anni sono diventate un punto fermo della produzione dell’azienda siciliana.

Secca del Capo, un successo che compie dieci anni

Secca del Capo, del quale festeggiamo i dieci anni di produzione, è il primo vino prodotto in collaborazione con mio papà. Si tratta di una Malvasia secca vinificata a Capofaro, dove abbiamo tuttora la cantina che si trova sotto il Monte delle Felci” Un terreno molto vocato alla coltivazione della Malvasia, la raccolta delle uve viene infatti anticipata all’ultima settimana di agosto. “Ciò ci permette di avere ancora una buona componente acitica, particolare che invece va a scemare con l’avanzare della maturazione. Partiamo quindi con la macerazione a freddo, poi inoculiamo lieviti che sviluppano note varietali capaci di risaltare i profumi dell’uva” Fermentazione a secco con gli zuccheri del mosto completamente consumati, travaso e successivamente passaggio in acciaio dove il vino affina per qualche mese. “Imbottigliato a fine febbraio-inizio marzo, sosta in azienda una settimana prima di essere etichettato e disposto orizzontalmente nel cartone”

Anche in versione passita

Nel caso della Malvasia Passita, la fermentazione dura invece 15-20 giorni con il lievito che lavora piano piano in quanto il silos è collegato ad un frigorifero con temperature e velocità di lavorazione preimpostate. L’uva viene raccolta quinci giorni prima rispetto a quella destinata alla Malvasia Naturale, ma viene fatta asciugare per un tempo più lungo.“Quando decidiamo che il livello zuccherino è arrivato al punto giusto, la temperatura viene portata a zero gradi così che il lievito smetta di lavorare e rimanga sul fondo. E il vino rimanga dolce. Facciamo quindi un travaso per eliminare lo sporco, al quale segue affinamento per un anno in acciaio. Al contrario della Malvasia Secca, per la quale il lievito viene mantenuto ad una temperatura più alta di 17-18° e la fermentazione continua fino a quando tutti gli zuccheri presenti sono consumati ed il prodotto va a secco”

Alla base della qualità, la scarsità

Rispettosa dell’ecosistema circostante, Cantina Colosi possiede una cantina di vinificazione immersa nei vigneti e parzialmente interrata come previsto dalle rigide normative dell’arcipelago eoliano. L’impianto del vigneto è realizzato a terrazze con i tipici muretti a secco, costituito da piccoli appezzamenti con filari disposti su terreni scoscesi e allevamenti a controspalliera con potatura guyot singolo. “Si lascia lo sperone per l’anno successivo con capofrutto che va in produzione per l’anno corrente – spiega Pietro Colosi – L’anno successivo, quando si fa la potatura invernale, il capofrutto che ha prodotto nella vendemmia precedente viene tagliato e lasciato a sperone. Mentre lo sperone precedente viene fatto crescere a capofrutto, lasciando tre gemme per andare a sviluppare i grappoli e non avere eccessiva vigoria. Essendo un territorio dove la resa non supera mai i 70 quintali per ettaro, per ogni ettaro mettiamo al massimo 7mila piante”

Un terreno difficile, inerbimento e sovescio le soluzioni

La difficile morfologia del terreno impone che le operazioni in vigna siano condotte esclusivamente a mano, impossibile effettuare irrigazione nel vigneto. “Le alte temperature e la conseguente siccità bloccano la maturazione delle uve, mantenendo piccoli gli acini e causando una bassa resa produttiva. Non potendo dare acqua alle piante (l’acqua che arriva a Salina attraverso le “navi dell’acqua” è riservata alla popolazione, in quanto clorata è inutilizzabile per l’agricoltura), utilizziamo alcune tecniche che ne impediscono la disidratazione. Attraverso l’inerbimento dell’intefilare, lasciamo crescere l’erba in altezza per poi trinciarla e creare un cotico erboso. Evitiamo così il surriscaldamento dello stesso e l’evaporazione dell’acqua dal sottosuolo. L’acqua viene recuperata attraverso il sovescio con le graminacee che, avendo radici fittonanti, aiutano il terreno a meglio assorbire l’acqua”

Monte Porri e Monte delle Felci, interferimento positivo

In compenso il terreno vulcanico è garanzia di mineralità. L’isola, la più lussureggiante dell’arcipelago eoliano, usufruisce infatti della presenza di ben due vulcani, entrambi spenti. Il Monte delle Felci, così detto perché l’antico cratere ospita un bosco di felci, e il Monte Porri, patrimonio dell’Unesco. “Il fatto che i due vulcani siano spenti da tempi diversi, fa sì che il terreno cambi notevolmente tra una pendice e l’altra. Monte delle Felci è un terreno molto ricco di sostanze organiche ed ossidi di ferro, molto indicato per coltivare la Malvasia. Monte Porri è invece un terreno più calcareo e sabbioso, indicato a coltivare le altre varietà” I venti che soffiano spesso sull’isola portano inoltre sui vigneti piccole percentuali di acqua marina che si depositano sulla buccia degli acini. “Interferiscono positivamente sul profilo gustativo del vino, donando una piacevole salinità”

Salina Bianco, vino estivo per eccellenza

Tra i vini prodotti, il Salina Bianco. Un vino molto fresco, indicato per la stagione estiva. L’uva viene raccolta alla mattina presto, raffreddata attraverso uno scambiatore, poi pigiata e introdotta all’interno di un silos a temperatura controllata di 14°-15°. La fermentazione dura venticinque giorni, una volta finita viene fatto un solo travaso. A seguire, il batonnage e il riposo sui lieviti. Viene quindi abbassata la temperatura a zero gradi per eliminare le particelle di sporco, filtrato nuovamente ed imbottigliato per circa 6 mesi. “E’ un vino da bersi giovane, abbinabile ad una tartare di cernia condita con olio, sale e un pizzico di pepe rosa. Magari sotto una tettoia, coccolati dalla brezza marina’’

Salina Rosso, blend senza tempo

Tra i rossi, spicca invece il Salina Rosso. Un blend di Nerello Mescalese e Nerello Cappuccio prodotto da Cantine Colosi dal 1985. “Raccogliamo e vinifichiamo insieme le uve, che non vengono raffreddate ma lavorate a temperatura ambiente. Quindi le mettiamo nel silos per farle fare una classica vinificazione in rosso” Dopo la macerazione sulle bucce, parte la fermentazione alcolica per circa otto giorni a 20° con tre rimontaggi al giorno per evitare che il cappello delle bucce, spinto in alto dalla anidride carbonica, si secchi impedendo l’estrazione del colore. “Facciamo anche il deleistage, per ossigenare il vino che sta fermentando ed evitare così note di riduzione”. Eseguita la fermentazione alcolica ed effettuato il travaso per togliere lo sporco, parte la fermentazione malolattica. Al termine della quale, si travasa il vino in botte grande dove rimane sei mesi, poi filtrato e portato in imbottigliamento.

Guardiano del Faro, la scommessa

Un vino nato quasi per caso è invece il Guardiano del Faro. “E’ stato una scommessa, avevamo in produzione un vigneto che ci dava ogni anno uva spettacolare della varietà del Nerello Mescalese. Abbiamo così deciso di vinificare a parte” L’uva, prima dell’inoculo dei lieviti, viene raffreddata ancora di più, la macerazione è a freddo e poi a cappello sommerso. Quando il cappello non ha più anidride carbonica che lo mantiene, si continua la macerazione per una settimana. Affinato per un anno in barriques da 225 lt., 60% delle quali sono francesi mentre le restanti sono americane. “E’ un vino più strutturato rispetto al Salina Rosso, perfetto da abbinare ad un pesce stocco in ghiotta, un piatto tipico delle nostre zone

Dal 2020 ufficialmente biologici, mai usato fitofarmaci

Nel 2020 Cantine Colosi ha completato il processo di riconversione al biologico di tutti i vigneti. Mediamente i vini sono esportati per il 60% della loro produzione, con gli Stati Uniti mercato di riferimento nonostante la recente politica dei dazi da questi applicata. Fanno eccezione i vini di Salina, che vengono distribuiti metà nelle Isole Eolie e metà nel restante territorio nazionale. Presente sul mercato da 40 anni, nonostante i numeri non trascurabili, Cantine Colosi rimane fedele a pratiche tradizionali. “Da sempre biologici, non abbiamo mai usato fitofarmaci già in tempi non sospetti. Per questo – conclude Pietro Colosi lavoriamo ancora con la classica busta di zolfo e rame in polvere per poter limitare al massimo le infezioni

QocktailExperience by Qualunquemente, non il solito locale da compagnia

QocktailExperience by Qualunquemente, prima di un cocktail viene servita una tecnica

Due vetrine, una cinquantina di posti tra quelli interni e i tavolini posti sul marciapiede della centralissima Via Bergamo di Monza. Alla saletta d’ingresso dominata dal bancone, seguono nel retro due salette molto intime con divanetti e qualche pianta. La clientela è trasversale, si passa dai 20 ai 60 anni. Viceversa, l’imprinting del locale è molto chiaro e definito. Niente vino ne birra, neanche bibite ed amari. Quanto piuttosto il desiderio di fare vivere una esperienza, prima dei cocktail viene di fatto servita una tecnica. Ne parliamo con Riccardo Zakian, titolare di QocktailExperience by Qualunquemente.

Dai chupito alla tecnica molecolare, la metamorfosi

Inizialmente siamo partiti come chupito bar – racconta il titolare di QocktailExperience by Qualunquemente – Frutto del mio girovagare per locali in compagnia degli amici per bere cicchetti di chupito. Però mi sono presto reso conto che per stupire i clienti non dovevo sfruttare soltanto il gusto, dovevo sfruttare anche l’olfatto” Da qui è nata l’idea di utilizzare la tecnica molecolare, attraverso l’utilizzo di anidride carbonica allo stato solido. “Il timore era che potessi confondere la clientela, avrebbe potuto pensare che volevo proporre una cosa troppo seriosa. Ma quando abbiamo fatto un catering da 300 posti per il ristorante bistellato di Chef Marco Sacco, preparando 300 cocktail solidi tra tartare di Negroni in gelatina e budini di pinacolada al cioccolato, ho fatto la svolta. Da Chupito Qualunquemente siamo diventati QocktailExperience by Qualunquemente

Il Campari Shackerato ad aprire la strada

La cucina molecolare è tecnica inventata da Adrain Ferran. Basata sulla sferificazione, ovvero la creazione di sfere attraverso il passaggio da uno stato liquido ad uno semi solido. Ne è esempio una delle prime proposte di QocktailExperience by Qualunquemente, il Campari Shackerato abbinato con un caviale molecolare di Campari. “Prepariamo un caviale di Bitter Campari utilizzando il calcio e l’alginato di sodio estratto da una alga marina. Il concetto è quello della colla di pesce, ma in questo caso il vantaggio è la gelificazione dell’alginato appena tocca il bagno di calcio, tanto maggiore quanto più rimane in immersione. Si viene quindi a creare una pellicola, da sciacquare sotto l’acqua per eliminare la sapidità del calcio. La lavorazione a freddo permette poi di non perdere la componente alcolica. Il risultato finale sono piccole sfere che sotto i denti scoppiano

Profumo di Spiaggia, la tecnica al servizio del cliente

Da sottolineare, il fatto che principio cardine della proposta di QocktailExperience by Qualunquemente non è tanto la creazione di classici rivisitati quanto l’utilizzo di una tecnica per dare forma alle richieste dei clienti. “Sono partito dalla convinzione che il barman non deve stare davanti al cliente, ma farsi interprete delle richieste dello stesso. La tecnica deve essere al servizio del cliente” Così, quando un cliente ha chiesto un cocktail instagrammabile, è nato Profumo di Spiaggia. “Viene realizzato con un olio essenziale molto particolare utilizzato nella preparazione di creme per il corpo ed una citronella un poco agrumata. Da questo mix deriva lo stesso odore delle creme solari che avverti camminando su una spiaggia”

Atomic Green e Negroni Fumè, per non trascurare i classici

Nella drink list di QocktailExperience by Qualunquemente non mancano comunque cocktail che ne rappresentano la proposta base. Tra questi, il Negroni Fumè. Un Negroni affumicato in legno di faggio. Ma in lista si trova anche l’Atomic Green, variante del Long Island. “Al posto del triple sec utilizziamo un liquore giapponese al melone chiamato Midori che prepariamo anche come caviale molecolare da abbinare al cocktail” Oppure Ted, un cocktail molto dolce a base di frutta esotica adatto ai più giovani. “In questo caso il caviale molecolare è a base di Blue Curacao, un liquore all’arancia amara che ha fatto la fortuna dell’Angelo Azzurro. Abbinati al drink, vengono serviti orsetti gommosi”

La Mela Avvelenata, anche la frutta fa la sua parte

La frutta è comunque un ingrediente che ritorna, come dimostra La Mela avvelenata. “Con la polpa di una mela creiamo una sorta di budino nel quale iniettiamo il daiquiri reso solido con la gomma di xantano. Un addensante vegetale che non necessita di andare in temperatura per gelificare come invece succede nel caso della colla di pesce. Aggiungiamo poi rhum, frutta secca e lime, quest’ultimo per contrastare l’acidità e bilanciare i sapori. Una volta fuori dal frigo, otteniamo un cremoso con la leggerezza di una mousse” In lista anche il Rhum e Pera 2.0, riproposizione di un classico chupito. “In passato si affiancava al chupito di rhum un bicchierino di succo di pera, noi sostituiamo quest’ultimo con una fetta di arancia caramellata con zucchero di canna. Poi sporcato di cannella o cioccolato”

La Trasfusione del Conte Negroni, quando una festa diventa uno spunto

Non mancano poi le proposte spiritose, perché a Riccardo Zakian, tutto sommato, con i cocktail piace anche un po’ giocare. Per non essere, come si diceva prima, troppo serioso. Ecco allora che in una ricorrenza come Hallowen, dalla sua creatività e fantasia, è scaturita La Trasfusione del Conte Negroni, con il cocktail contenuto in una sacca da trasfusione. Oppure il Patto di Sangue. “Il cocktail è servito in un guanto, si pensa alla persona alla quale rivolgere il sortilegio e si pugnala il guanto al centro. Quando la pozione a contatto del bicchiere comincia a fumare, è segno che la magia è avvenuta” Sempre frutto della sua voglia di scherzare, il gin preparato con carbone vegetale che lo rende nero. Come nero è il colore degli abiti delle streghe. Ma la vera esperienza da QocktailExperience by Qualunquemente è un’altra.

Fiore Elettrico, la vera esperienza

Parliamo infatti del Fiore Elettrico, un potente anestetico e analgesico naturale. Impiegato dagli indigeni per curare mal di denti e il mal di stomaco o per preparare il curaro. “Pianta commestibile, con il suo estratto si producono gli antirughe. Quando lo si mastica, si avverte un forte senso di freschezza e frizzantezza seguito da un aumento della salivazione che pulisce le papille gustative. Scemata la frizzantezza, si passa alla degustazione” In lista, troviamo anche il BlueThai GinTonic. Un gin tonic il cui ingrediente base è il Fiore dal Pisello Blu, fiore thailandese che cambia colore al cambiare del ph. “In questo caso da blu passa a fucsia” Insomma, per dirla con le parole dello stesso Riccardo Zakian, “QocktailExperience by Qualunquemente non è il solito locale da compagnia”

La Regina dei Sentieri, la Maremma del vino tra imprenditoria e nobiltà

La Regina dei Sentieri, Maremma toscana scenario di un giallo

Molto di più di una rassegna letteraria, Montagna di Libri è momento di incontro tra autori, giornalisti, intellettuali ed artisti provenienti da tutto il mondo. Il format creato da Francesco Chimulera ha saputo costruire, edizione dopo edizione, un dialogo profondo tra letteratura, attualità e memoria, offrendo al pubblico incontri che celebrano il libro come strumento di confronto e di scoperta. Quest’anno, nel calendario dellaedizione estiva 2025 che come sempre si tiene a Cortina d’Ampezzo, spicca un appuntamento imperdibile per gli amanti del vino. Venerdì 1° Agosto gli scrittori Samantha Bruzzone e Marco Malavaldi presentano il loro ultimo libro “La Regina dei Sentieri”. Un giallo ambientato nel mondo del vino, sullo sfondo della Maremma toscana.

Quando la passione per il vino si mescola a invidie e crudeltà

La scelta di Una Montagna di Libri di aprirsi al mondo del vino non è casuale, nasce dalla consapevolezza che il vino è molto più di una bevanda. È memoria del territorio ed espressione di una identità che affonda le sue radici nel tempo. Un riconoscimento al valore del lavoro artigianale e della cura della terra. Perché il vino, come la letteratura, racconta storie e restituisce emozioni. In questo ambito, Regina dei Sentieri si inserisce in un percorso di approfondimento dei cambiamenti che hanno attraversato il mondo del vino negli ultimi trent’anni. “Si tratta di un giallo – spiega Marco Malavaldi – Il ritrovamento del cadavere di un vinattiere dalle nobili origini nel lago di una tenuta nelle campagne di Bolgheri, di proprietà dei suoi più acerrimi concorrenti (un fondo che nella tenuta ha investito), ci ha dato la possibilità di esplorare le dinamiche di un territorio che negli ultimi decenni è profondamente cambiato. E fare emergere come la passione per il vino si possa mescolare anche a invidie e crudeltà

Aziende vitivinicole, specchio del cambiamento di un territorio

Le aziende vitivinicole e la loro evoluzione sono quindi lo specchio di queste dinamiche e di questi cambiamenti, messe in evidenza attraverso le trasformazioni di un territorio un tempo depresso. “Fino a pochi decenni fa, la Maremma toscana era solo un insieme di sentieri (da qui il titolo del libro) che collegavano cantine dall’aspetto brullo e poco stimolante. Oggi, questo stesso territorio è un brulicare di tenute progettate e ristrutturate da architetti di fama e meta di celebrità dello spettacolo, come si volesse fare riflettere il bello sul buono. Con il vino divenuto portavoce del territorio” A dare la svolta, l’arrivo dell’autostrada. “Prima del suo arrivo, raggiungere la Maremma significava fare il viaggio della speranza. Con il suo arrivo si è cominciato ad investire su un territorio dove prima non si raccoglieva nemmeno quanto si coltivava, perché non conveniva”

Da luoghi di produzione a meta di celebrità

Le cantine, da semplici luoghi di produzione, sono diventate tutto d’un tratto luogo di attrattiva, meritevoli di essere conosciute e visitate. Ma ecco il rovescio della medaglia. “Le nuove possibilità hanno favorito una spinta allo sfruttamento intensivo, per non dire selvaggio, di ogni unità abitativa. Trasformata, dalla sera alla mattina, in struttura ricettiva o posti di ristorazione da parte di persone spesso improvvisate. E che gioco forza sono durate il periodo di una stagione, schiacciate da una selezione a dir poco darwiniana. Perché la Maremma ti restituisce quello che gli dai”

Maremma tra imprenditoria e nobiltà, Castello del Terriccio l’esempio

I cambiamenti di ultimi trent’anni hanno peraltro evidenziato un confronto tra imprenditoria e nobiltà. Con i fondi di investimento che rilevano le cantine da un lato, le antiche casate che producono vino sin dal Duecento dall’altro. Due modi diversi di fare vino e di concepire gli affari, che inevitabilmente ha creato competizione. Ma anche sviluppo e miglioramento. “Castello del Terriccio- sottolinea l’autore di La Regina dei Sentieri – è uno degli esempi della parte nobile, al contempo esempio di visione imprenditoriale” Una storia che parte da lontano, Castello del Terriccio è azienda che ci riporta indietro nel tempo. A quando, tra il Duecento e il Trecento, il Vescovo di Pisa (nipote di Papa Bonifacio VIII) concesse in enfiteusi la Tenuta ai Conti Gaetani, rimasti proprietari fino alla fine del Settecento.

Una tenuta sterminata, all’interno anche un antico borgo

Negli anni ’70 la vera svolta, con la rifondazione della tenuta da parte dello zio dell’attuale proprietario. Arroccata su una collina dalla quale si vede il mare, la tenuta è dominata dalle vestigia del castello la cui torre, nei secoli scorsi, faceva da punto di avvistamento per proteggere la popolazione circostante dagli attacchi dei pirati saraceni. All’interno, un piccolo borgo al quale si accede dopo aver percorso un viale alberato di quattro chilometri. “Un tempo – spiega l’attuale proprietario Vittorio Piozzo di Rosignano – era un paesino autosufficiente, con la sua scuola, il circolo ricreativo, la fornace, il mulino, il forno, la scuderia e la falegnameria. Fino alla fine degli anni ’70 ha garantito la sopravvivenza di decine di famiglie di mezzadri” Oggi la falegnameria è un moderno punto vendita, dalla antica scuderia è stata ricavata una guest house. Annesso al modernissimo ristorante, lo spazio degustazione aperto sulla terrazza panoramica con vista sui vigneti.

Letteratura e memoria storica, interesse mai sopito

Alla capacità imprenditoriale di trasformare gli spazi un tempo utilizzati dai mezzadri in moderne strutture ricettive e turistico-alberghiere, Vittorio Piozzo affianca anche un mai sopito interesse verso storia e letteratura. “Mio zio era un amante del romanzo storico, tutti gli anni organizzava a Castello del Terriccio un evento ad esso dedicato. Dopo la sua scomparsa, questa attenzione era un poco scemata. Montagna di Libri ci ha dato la possibilità di rinverdirla” Dall’anno scorso partner di Montagna di Libri, quest’anno Castello del Terriccio parteciperà alla presentazione di La Regina dei Sentieri.

Lupicaia, piccola scommessa vinta

In questo contesto, la presenza di Castello del Terriccio assume un significato emblematico. I suoi vini portano con sé il carattere della Maremma toscana e un senso del tempo assolutamente in linea con il format della manifestazione. Tra questi, Lupicaia è uno dei più rappresentativi. Nato nei primi ’90 da un vigneto circondato da filari di eucalipto, composto per il 40% da Cabernet Sauvignon e per il 60% da Petit Verdot, viene affinato in tonneaux per 22 mesi circa. “Nelle prime annate era presente una piccola percentuale di Merlot, da quindici anni lo abbiamo sostituito con il Petit Verdot. Il risultato – conclude Vittorio Piozzo – è un vino elegante e di grande struttura, dai sentori di cuoio e di caffè. Una piccola scommessa vinta”

Speciale Osteria, atmosfera anni 80

Speciale Osteria, tutto parla degli anni 80

Un team molto giovane, dai quattro soci alla brigata di sala e cucina. A dispetto dell’età, un amore condiviso per una decade conosciuta solo attraverso i racconti di genitori e i pranzi domenicali con i nonni. Dagli arredi su misura alle pareti color noce con fotografie in bianco e nero, dal pavimento in graniglia alle travi a vista e ai vetri a cattedrale, dalla mise en place dominata dal bianco alla colonna sonora di vecchie hit, tutto parla degli anni 80. “Abbiamo dato tanto valore alla ricerca estetica, frutto – afferma Stefano Cerliani, uno dei quattro titolari – della ricerca in vari mercatini. Con Speciale Osteria (Via Pastrengo 11, Milano) vogliamo proporre una atmosfera che coniughi la presenza di un oste da vecchi tempi ad una cucina molto semplice fatta di tanta tradizione e ricette provenienti dalle vecchie generazioni. Ma con la giusta contaminazione dei giorni nostri”

Tutto fatto in casa, come una volta

Ed infatti ad aprire le danze, tra gli antipasti, è un vitello tonnato servito con un pizzico di innovazione. “Facciamo – spiega il Restaurant Manager Fabio Macaluso – una salsa tonnata un poco più liquida rispetto a quella tradizionale che viene cotta con le uova sode, così da coprire tutte le fettine del vitello” A terminare, una salsina d’arrosto. “Per un tocco fresco, croccante e innovativo che aggiunge ulteriore morbidezza” Tutto viene fatto internamente, dalla pasta alle salse fino alle lavorazioni delle carni. Come avveniva negli anni 80. “Vogliamo creare una storicità e diventare il punto di riferimento del quartiere per una ristorazione diversa. Una ristorazione che veda il contributo di persone che credono in quello che fanno, come succedeva allora

Un tocco di milanesità, come da tradizione

Il menù è incentrato su piatti di terra, al momento in carta di cucina di pesce c’è solo un antipasto di baccalà mantecato. Alcuni piatti (come i fiori di zucca, la polpetta al pomodoro, il lombatello con erbe di campo) sono partiti come special, ma l’apprezzamento della clientela li ha fatti diventare punti fermi della proposta di Speciale Osteria. “Siamo fieri di questi prodotti – rimarca Stefano Cerliani –perché sono stati voluti, pensati e studiati” Da ogni voce del menù traspare semplicità, a voler ricreare l’atmosfera di casa. Con un tocco di milanesità, come dimostrano i mondeghili con maionese allo zafferano, il risotto alla milanese con midollo e gremolada e la costoletta di vitello rivestita di rucola e pomodorini. Come da tradizione, cosi come da tradizione è la lasagna servita solo alla domenica.

Gnocco fritto, il Nord Italia in un boccone

Valorizzata la parte vegetale, attraverso la cottura della brace che trova ampio spazio nel menù. “Con il forno a carbone andiamo a gestire tutta la parte dell’orto che può essere collocato sia come antipasto sia come supporto ai secondi” In carta si trovano infatti asparagi, verdure di stagione, filetto con sugo d’arrosto e costata di scottona, tutti rigorosamente alla brace. Altro punto forte della cucina sono i ragù, abbinati alle paste fresche fatte in casa. “Inevitabile richiamarsi all’Emilia, anche se in alternativa a quello più tradizionale abbiamo un ragù bianco composto per il 60% da faraona e per il 40% da coniglio” Un richiamo ripreso anche dal gnocco fritto, servito con prosciutto crudo, coppa piacentina, pancetta cotta, salame gentile e giardiniera. “Il Nord Italia in un boccone”, commenta Stefano Cerliani.

Atmosfera e proposta d’altri tempi

Scorrendo il menù, si incontra una voce che ribadisce ancora una volta di più la volontà di ricreare una proposta d’altri tempi. Forse un po’ retrò nella sua semplicità, ma proprio per questo rincuorante. E’ la “barba dei frati” condita con il limone, voce ormai scomparsa dalle tavole dei ristoranti milanesi. “Fresca e un po’ acidula, è saltata in padella per farne sentire tutto il sapore” La semplicità rimane comunque la costante della proposta di Speciale Osteria, nel piatto come nel calice. “I nostri vini – conclude Stefano Cerliani – provengono principalmente da piccole cantine. Semplici e beverini” Insomma, da Speciale Osteria si respira l’atmosfera dei vecchi trani. Dove ad una proposta onesta e sincera si unisce il piacere della buona compagnia. E chissà se in futuro, dalla cucina, non esca qualcuno con una chitarrina a cantare vecchie canzoni milanesi.

Gusto di autore sul fiume, l’estate di Makorè

Darsena ferrarese, Makorè presenta la tradizione del bacaro veneziano

Fino al 10 agosto, Makorè lascia temporaneamente la sua sede di via Palestro nel centro di Ferrara. Trasformato in un locale a cielo aperto lungo le sponde del Po. A fare da sfondo, la Darsena ferrarese che unisce il rigore della qualità gastronomica ad una atmosfera più conviviale. Qui, sulla sponda del Canale Burana riqualificato, Makorè propone la tradizione del bacaro veneziano, riproposta nella sua più pura essenzialità senza nulla concedere alla innovazione. “Ho portato in Darsena – evidenzia lo Chef Denny Lodi Rizzini – tutta l’esperienza cumulata in cinque anni di lavoro a Venezia. Ricreando un bacaro veneziano a Ferrara

Una carrellata di sapori che raccontano il mare e la laguna

Inevitabili protagonisti i cicchetti, piccoli bocconi ideali per l’aperitivo. Una carrellata di sapori che raccontano il mare e la laguna tra spada affumicato con stracchino, baccalà mantecato su polenta, alici in saor e polipetti in umido. A questi si aggiungono tramezzini e polpette, da quelle al tonno e ricotta a quelle con pecorino e melanzane. A cena piatti più strutturati per una cena completa, ma sempre informale. Dal cous cous di calamari e verdure di stagione all’hot dog di polpo con salsa barbecue e cipolle caramellate, fino ai classici spiedini di gamberi e calamari.

Esperienza versatile e accessibile, ma non mancano le ostriche

Non mancano peraltro le preparazioni crude, come la tartare di tonno e di salmone e la selezione di ostriche particolari provenienti da Italia, Irlanda e Francia. A chiudere il pasto, una selezione di dolci della tradizione come tiramisù, zuppa inglese e la brioche farcita con ricotta e pesche di stagione. Una proposta con la quale Makorè si apre alla città trasformando la sua visione di alta cucina in una esperienza versatile e accessibile. Comunque fedele ai principi di ricerca e cura del dettaglio. “Quello che facciamo in Darsena è presentare una proposta molto più semplice e diretta”. Ma gli amanti del fine dining non temano, Makorè ritornerà nella sua sede storica il 4 settembre per riproporre i suoi piatti più iconici.