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Osteria Brunello, la tradizione italiana in chiave contemporanea

Osteria Brunello, riguardo verso i classici

Nel pieno centro di Milano, in una delle zone pedonali della movida milanese, un ristorante che accoglie i clienti in una atmosfera raffinata e al contempo informale e rilassante. L’occasione, per turisti e locali, di apprezzare i piatti della tradizione italiana, con un occhio di riguardo ai classici della cucina milanese. “I piatti che negli anni sono diventati simboli di Osteria Brunello – afferma il trentenne chef Vittorio Ronchi – sono la vera cotoletta alla milanese ed il risotto alla milanese. Senza ovviamente dimenticare i mondeghili. Mi piace molto mantenere i piatti storici italiani, con un occhio di riguardo a questa città” La proposta di Osteria Brunello in Corso Garibaldi 117 a Milano è comunque in chiave contemporanea nel rispetto della stagionalità delle materie prime.

Menù bilanciato, con un tocco di modernità

Ne sono un esempio il vitello tonnato con pomodori confit e frutto del cappero ed i ravioli ripieni di zucca con fonduta di gorgonzola e noci tostate. Così come il risotto ai funghi porcini con fonduta di taleggio ed i fiori di zucca in tempura ripieni di ricotta di pecora e acciughe del Cantabrico con pesto di zucchine novelle e menta. O piuttosto, i mondeghili serviti con purea morbida di patate affumicate e salsa verde. “L’ obiettivo della nostra proposta – rimarca lo chef – è la ricerca del giusto equilibrio tra gli elementi dolci e sapidi, amari e acidi, tra la consistenza croccante e quella cremosa” Un equilibrio che si evince anche dal menù, con un bilanciamento tra proposte di carne, di pesce e vegetariane.

Spazio anche per la cucina di mare

In carta abbiamo una branzino alla plancha con crema di ceci al rosmarino e verdure al cartoccio – spiega lo chef – Sbollentiamo i ceci e poi li frulliamo con un olio insaporito con aglio e rosmarino. Otteniamo così una crema sopra la quale mettiamo il branzino. Su quest’ultimo distribuiamo zucchine, patate, cavolo romano e cavolfiore condite con sale, origano ed un olio all’aglio” Tra gli altri, anche un polpo in doppia cottura con purea di fave, cicoria ripassata e pomodoro secco. Dopo la prima cottura sottovuoto a 72° per due ore, lo piastriamo con l’olio. Con le fave ammollate dalla sera prima creiamo la purea con aglio e olio, aggiustata con sale e aceto balsamico. Sopra il letto di purea, il polpo e sopra questo i pomodori

Legumi, discorso a parte

Piatti che svelano l’amore dello chef per i legumi, un amore che non può che esplodere nel menù vegetariano. La conferma arriva, tra gli antipasti, dalla crema di fave con cicoria ripassata. In carta anche una ricca insalata agrodolce. “Insieme a pomodori, patate, sedano e olive taggiasche, mettiamo primosale, cipolla agrodolce ed una composta agrodolce di pomodori confit” Tra i secondi, la crema di ceci. “Mi piacciono molto i legumi, cucinarli mi da molta soddisfazione. Rappresentano la storia italiana, bisognerebbe recuperarli

Quaglia ripiena, il piatto più creativo

Spaghetto e parmigiana rappresentano invece l’aspetto creativo dell’idea di cucina di Chef Ronchi. Cominciamo quindi con lo spaghetto con battuto di gambero rosso al lime con crema di pomodoro arrosto, primosale e polvere di cappero. “Facciamo arrostire i datterini con olio, aglio e basilico. Poi li frulliamo, creando la salsa. Impiattato lo spaghetto, sopra la salsa mettiamo la polvere di cappero ottenuta infornando a 70° per una notte intera il cappero dissalato” Soggetta ai cambi di stagione è invece la parmigiana. “Questa estate ho proposto una parmigiana con stracciatella e alici fritte. Per la stagione autunnale, invece, la parmigiana di zucca. Al posto di pomodoro e mozzarella, metto la crema di porri e patate e la provola affumicata. Ma il mio piatto più creativo è stata la quaglia ripiena di salsiccia e frutta secca, accompagnata da purè e cavolo nero brasato

Dulcis in fundo, oltre il tiramisù

La carta dei dessert è arricchita di intrigante complessità tra dolci intramontabili e, talvolta, dimenticati. A sbancare è il tiramisù, da ormai otto anni sempre in carta. “E’ un dolce al cucchiaio, servito a tre strati nel bicchiere. Nella nostra versione, alla base costituita da mascarpone, panna e marsala segue una frolla al burro e caffé che rendiamo come sabbia. Per ultimo, una classica crema inglese insaporita solo con la vaniglia e poi sifonata. Per concludere, una spolverata di cacao per dare un tocco amaro” Ma molto richiesta è la Barbajada, quasi introvabile sulle tavole milanesi. “La serviamo con un cremoso al cioccolato ed una crema inglese con cioccolato fondente al 72% come base, a parte facciamo una chantilly al caffé. Viene proposta – conclude Chef Vittorio Ronchi – con gelato alla stracciatella, sale di maldon per aumentare la dolcezza e grue di cacao per un tocco amarognolo” Osteria Brunello, sapori rassicuranti in centro a Milano.

Feeling Food Milano, teatro di esperienze gastronomiche

Feeling Food Milano, da dieci anni laboratorio di condivisione

Nato nel 2015 da una idea di Maurizio Vaglia, Feeling Food Milano è oggi una realtà consolidata nel panorama degli eventi aziendali e privati. Una location unica nel suo genere, concepita come teatro di esperienze gastronomiche e sensoriali ma anche come laboratorio di relazioni e condivisione. Uno spazio di 400 mq a in Via Benaco 30 a Milano dove si incontrano cucina, cultura e creatività. In dieci anni di attività, Feeling Food Milano ha saputo conquistare privati alla ricerca di eventi su misura ed aziende in cerca di esperienze formative unendo gusto, emozione e interazione. Qui il cibo non è mai solo nutrimento, ma strumento di connessione e linguaggio universale.

Specializzati nel cooking team building

Feeling Food Milano – illustra l’event manager Emma Turrini– è nato dall’idea di creare una location che ospitasse i corsi di cucina e le presentazioni di prodotti alimentari, con la partecipazione degli chef. Negli anni ci siamo specializzati nel cooking team building, con più di 10 format legati alla cucina, arrivando ad avere fino a 150 persone partecipanti” Gli eventi sono creati su misura del cliente, che sceglie lo chef da coinvolgere nell’evento. “I clienti si affidano a noi perché sanno che offriamo qualità nel cibo, nel servizio e nella gestione dell’evento. Ma soprattutto, sanno che abbiamo creato una squadra di lavoro solida, entusiasta e sempre pronta a mettersi in gioco

La collaborazione con gli chef

Ma a volte sono gli stessi chef che organizzano e gestiscono un evento in collaborazione con Feeling Food Milano. “Per i circa settanta chef che collaborano con noi – precisa Emma Turrini siamo diventati un punto di riferimento ogni volta che vogliono avere uno spazio a disposizione per fare eventi richiesti dai loro clienti. Ad esempio Elio Sironi ha gestito per Mba Business School un cooking team building. In quella occasione ha presentato un menù composto da baccalà al carpione con salsa verde e cialda alla curcuma, gnocchi ai funghi di cardo con pecorino e salsa diavola e zuppa di pere, cannella, nocciole e purea ai cachi

Valorizzazione di prodotti

Laboratorio di relazioni, scoperta e condivisione, Feeling Food Milano è soprattutto valorizzazione di prodotti. Come dimostra uno dei format che negli anni ha riscosso particolare successo, “Il tartufo bianco è in buone mani”. Una cena a sei mani, dall’antipasto al dolce, dedicata al rinomato fungo. Replicata per tre anni, con la partecipazione di tre grandi chef come Elio Sironi, Felix Lo Basso e Roberto Okabe. “Per quell’evento preparai, come aperitivo, un sushi di riso avvolto nel salmone con uova di quaglia e uova di salmone, servito con scaglie di tartufo bianco e accompagnato da una Caipivodka alla maracuja – ricorda Chef Roberto Okabe (recentemente ritornato a Finger’s Garden di Milano) – Come primo piatto servii una crema di patate tartufata al nero di seppia con tempura di carote, capesanta e funghi shiitake. Per dare colore, peperoni grigliati. Sopra, scaglie di tartufo bianco

Non solo Italia

Soprattutto all’inizio abbiamo organizzato tante cene a tema, tra gli chef della cui partecipazione ci possiamo onorare abbiamo Ernst Knam e Fabrizio Cadei – sottolinea Emma Turrini – E poiché amiamo coinvolgere e creare condivisione, cinque anni fa abbiamo realizzato Feeling Food Milano Premia con la presenza di 15 top chef. Tra gli altri, anche un evento dedicato alla Sardegna con la partecipazione di chef esclusivamente sardi. Mentre due anni fa, con Lo Spaghetto Più Alto d’Italia, abbiamo portato un nostro evento fino a 3500 metri slm”. Ma sarebbe un errore pensare che Feeling Food Milano si rivolga solo a chef e prodotti italiani, nella sua storia anche momenti di valorizzazione di realtà diverse da quella nazionale. “L’evento più curioso che abbiamo realizzato è stata una cena a sei mani che ha visto la partecipazione di tre chef sudamericani

Le celebrazioni del decennale

Per celebrare un decennio di attività tra team building, degustazioni e sperimentazioni gastronomiche, il prossimo 20 novembre Feeling Food Milano dedicherà una intera giornata a gusto, convivialità e creatività. Si parte con due format che vogliono essere un momento di partecipazione attiva in cucina, per riscoprire la manualità e il valore del lavorare insieme. Seguono, nel pomeriggio, una esperienza sensoriale dedicata al vino pensata per imparare a riconoscerne le sfumature e un laboratorio pratico per scoprire come ridurre gli sprechi e creare piatti sorprendenti partendo da ciò che si ha a disposizione. E si può fare una esperienza di mixology interattiva per imparare a creare un cocktail d’autore. In conclusione, il brindisi con tutti gli chef che negli anni hanno collaborato. “Questo anniversario – conclude Emma Turrini – è più di una festa, è un momento per ringraziare coloro che ci hanno accompagnato in questo percorso che ha portato Feeling Food Milano a diventare un luogo di incontro tra il gusto e le persone

Golosaria, la contemporaneità della tradizione

Vent’anni di Golosaria Milano, scoperta delle innovazioni

Sarà il Gusto della Contemporaneità il tema della 20esima edizione di Golosaria Milano in programma a Fiera Milano Rho (padiglione 1) da sabato 1 a lunedì 3 novembre 2025. Una celebrazione speciale, con oltre 400 aziende attese. Centinaia di espositori food&wine provenienti da tutta Italia, che porteranno a conoscenza del pubblico alcune chicche espressione del tema di questa edizione. “L’unicità di Golosaria – dichiara il fondatore Paolo Massobrio – è la scoperta di coloro che hanno saputo innovare. In questa edizione che celebra il ventennale della manifestazione, protagonisti saranno soprattutto i piccoli produttori che, puntando sulla tradizione, sono diventati contemporanei”. A riprova di questo claim, Paolo Massobrio porterà sul palco, nel giorno di apertura, proprio le aziende che meglio hanno interpretato il tema.

Le chicche dell’edizione 2025

Tra i prodotti più curiosi, la kombucha di Crave e le farine speciali di Macino Fine Food. Queste ultime ottenute da scarti agricoli come vinacce, mele e trebbie di birra. Ma anche il carciofino grosso come una moneta da cinque centesimi della azienda Menchi e il gelato al gorgonzola di Sottozero Pennestrì. Così come la crema spalmabile di Acetaia Sereni, a base di nocciole con aggiunta di aceto balsamico. Importante la presenza della Calabria, con ben 40 produttori. “Tutti parlano di alici del Cantabrico, noi invece portiamo le alici di Fuscaldo, in provincia di Cosenza. Hanno un gusto straordinario e tengono il confronto con le ostriche francesi” Curioso il panettone alla melanzana violetta di Alfonso Mazzuca. Uno dei panettoni artigianali portati da quindici pasticcerie, dalla Valtellina alla Sicilia, che si possono trovare nello Spazio Food del padiglione.

Contemporaneità, l’altra faccia della tradizione

Tra le novità, da segnalare il whisky made in Brianza ed il Castelbufala, un castelmagno prodotto con latte di bufala da un giovane produttore piemontese. Ma anche il debutto della pasta Metodo Massi. Nuovo anche lo spazio di educazione alimentare dedicato ai bambini con due laboratori e quello dedicato agli appassionati di barbecue. “Golosaria – commenta Paolo Massobrio – è sempre stato il debutto delle novità”. Novità a parte, Golosaria è soprattutto espressione di una continuità, con una attenzione verso il mondo del vino mai venuta meno. Confermata dalla presenza dei Consorzi di Tutela, con la Lombardia a fare la voce grossa. Ai quali si affianca uno spazio dedicato al Buttafuoco Storico. Il Piemonte avrà invece una enoteca dedicata al Barbera d’Asti e alla presentazione di altri vini e prodotti sotto il marchio Piemonte IS. “La Barbera d’Asti ha una sua contemporaneità. Un tempo ritenuto vino popolare, tra i vini maggiormente prodotti insieme al Chianti. Oggi è stato riscoperto come grande vino internazionale dalla grande versatilità”

Top Hundred, appuntamento che si rinnova

Come ogni anno, non mancherà la proclamazione, a cura di Paolo Massobrio e del collega Marco Gatti, dei 100 vini migliori d’Italia. Immancabile appuntamento di Golosaria, le quattro masterclass che ospiteranno i Top Hundred 2025 e quelli proclamati Top dei Top. “Risale proprio a venti anni fa l’invenzione del riconoscimento dei Top Hundred. Con il quale diamo un riconoscimento a quelle che riteniamo essere le 100 migliori cantine d’Italia. Avendo però l’accortezza di evitare di premiare i vini dell’anno precedente, così da portare alla ribalta giovani talenti. Tre anni fa abbiamo comunque creato la sezione dei Top Storici, che riprendiamo con un vino diverso. Per dimostrare che nel tempo c’è una continuità qualitativa”. L’innovazione va a braccetto con la contemporaneità, traendo origine dalla interpretazione del concetto di tradizione. Da sempre punto di forza di Golosaria in questo percorso ventennale, sin da quel primo appuntamento del 2006. Quando la partecipazione di Massimo Bottura, Carlo Cracco e Davide Scabin segnò un momento storico, la nascita della nuova cucina italiana.

La mostra fotografica, traccia di un percorso

Un percorso segnato da momenti che hanno sancito l’evoluzione del mondo food&beverage italiano, momenti che sono stati recuperati dalla mostra fotografica allestita all’interno del padiglione. “In questi venti anni abbiamo lanciato alcuni temi perché potesse crescere il mondo del gusto. La mostra é un modo per indicare quale sia la contemporaneità della tradizione. La tradizione evolve, resta contemporaneo ciò che vale”. Nel 2007 con la prima edizione all’Hotel Melià, si scatta la fotografia di un fenomeno quale la birra artigianale. L’anno dopo, si accendono le luci sulle De.Co. (Denominazioni Comunali) per il valore identitario che rappresentano. L’anno dopo ancora si mettono in luce le professioni del futuro con la “Latteria del futuro” e la “Panetteria da ascolto”. Negozi ibridi che oggi popolano le piazze. “Locali aperti ininterrottamente, per un servizio volto alla integrazione delle comunità della città

Golosaria, luogo della colleganza

Nel 2010 viene lanciata, in collaborazione con ConfCommercio, “L’idea del cavolo”. L’intenzione è incentivare l’iniziativa di adottare i negozi di montagna da parte dei negozi di città. “Siamo partiti dalla consapevolezza che a volte il negozio di montagna ha specialità che gli sono proprie perché espressione della sua presenza sul territorio. Una bellissima provocazione che instillò alcune riflessioni da parte delle Amministrazioni. La Regione Liguria, per esempio, fece una legge per sostenere queste realtà”. Edizioni più recenti si sono concentrate su temi come “Tradizione é Innovazione”, “Territori, identità e futuro” e, fortissimo, quello della colleganza. Un tema emerso dopo la pandemia da Covid19, che ha reso evidente più che mai la necessità di una alleanza tra colleghi. “Da sempreconclude Paolo Massobrio Golosaria è il luogo della colleganza, un momento nel quale produttori, ristoratori e bottegai si incontrano, scambiano idee e generano collaborazioni. Vogliamo favorire la contaminazione tra tutti coloro che producono qualità con i prodotti della agricoltura italiana. Perché ciò fa grande la ristorazione”

Mater Bistrot, cucina di contrasti

Mater Bistrot, semplicità e ricercatezza

Intimo ed elegante al punto giusto, ma tutto sommato informale come nello spirito del più classico dei bistrot. Si mangia vicini, tra i ventidue coperti che riempiono la piccola sala. Mentre i quattro sgabelli posti di fronte al bancone della luminosa cucina a vista, a destra dell’ingresso, offrono la possibilità di una intrigante chef table. A fare da cornice alla cucina, bottiglie curiose di una collezione di vini portata avanti con passione. La parete a destra dell’ingresso, volutamente scrostata e tanto semplice quanto calda nella sua ruvidezza, crea una atmosfera familiare. Alla quale fanno da contorno luci morbide, tavoli marmorei e scompagnate poltroncine retrò. Semplicita e cura del dettaglio, in un gioco di contrasti che si riflette nella proposta culinaria di Chef Alessandro Leone. E’ Mater Bistrot, in Via Sottocorno 1 a Milano.

Spazio ai piccoli produttori

La parete scrostata – racconta Chef Alessandro Leone – è nata quando abbiamo tirato giù la boiserie di finto mattone rosso, scoprendo i precedenti intonaci. E l’abbiamo tenuta perché riprende l’idea di materia prima che è il nostro punto di partenza” Una idea che si ripropone anche in cucina, con l’utilizzo di prodotti stagionali di piccoli produttori. “Se utilizziamo prodotti fuori stagione, è perché li abbiamo lavorati in stagione”. Come i cocomeri sottaceto, ingrediente della Cremosa al cioccolato bianco, nocciole caramellate, polveri di capperi e, appunto, cocomeri sottaceto. Proposto nel menù degustazione, a rappresentare perfettamente la filosofia di Mater Bistrot.

Alternanza non uniforme

Non cerco un equilibrio di gusto, dal momento che è impossibile trovare l’equilibrio che accontenti tutti – precisa Alessandro Leone – Piuttosto, quando realizzo un piatto, mi pongo l’obiettivo che gli elementi siano netti, contrastanti ed opposti” Contrasti che nella cremosa sono dati dalla dolcezza del cioccolato bianco e dalla sapidità del cappero disidratato e dai cristalli di sale cosparsi casualmente. “Cerco la rottura, altrimenti cioccolato bianco e cappero disidratato andrebbero di pari passo. Io invece voglio l’alternanza non uniforme della dolcezza dell’uno alla sapidità dell’altro insieme alla acidità della frutta. Per rompere la monotonia del piatto” Alla base, comunque, una propensione limitata ai dolci. “Non ne sono particolarmente amante, per questo motivo prediligo dolci con una spiccata nota sapida

Bon ton, no grazie

Contrasti a parte, la cucina di Mater Bistrot è una cucina divertita, giocosa e irriverente. Sorprende e conforta allo stesso tempo, grazie alla sua capacità di esprimere l’essenza degli ingredienti e creare effetti inattesi. “Le cose strane le facciamo in degustazione. Per esempio, gli spaghetti saltati nel sugo fatto con un soffritto di aglio, basilico e fragole” Nel menù alla carta sono presenti piattini da mangiare con le mani, pensati per essere condivisi tra i commensali. “Vogliamo rompere lo schema del bon ton e del servizio impettito. Le persone che vengono a mangiare da noi devono sentirsi rilassati come se fossero ospiti a casa di qualcuno

Dall’ostrica al mondeghili, dimenticate le posate

Tra i diversi piattini, le intramontabili polpette. Servite con la giusta creatività. Come i materghili, versione alternativa dei mongeghili, preparati con mortadella, lingua di vitello e reale di vitello e sopra una salsa chimichurri. C’é poi una cicoria pan di zucchero cotta sui carboni della brace e completata con una pasta ai semi di zucca. “Sopra ci mettiamo una salsa all’aceto“. Per rimanere in linea con l’ambientazione bistrot, una ostrica fin de claire. “L’acqua dell’ostrica viene sostituita dal grasso di pollo arrosto, con qualche goccia di sriracha” Non ultimo, il tonnetto crudo. “Un taglio sashimi con un pico de gallo fatto di melone e una salsa al lime” E per gli amanti dei funghi, funghi dragoncelli panati e fritti serviti con salsa al dragoncello e maionese al ribes.

Una esperienza lontana dagli schemi

In carta, che cambia ogni 40 giorni, ritorna l’ostrica. Da quella con kiwi e guanciale croccante alle più recenti, fritte o servite con rape sottoaceto e olio estratto dalla n’duja. Il menù prosegue tra paste fresche, paste secche e risotti, questi ultimi sempre presenti. “Recentemente ne abbiamo presentato uno al gorgonzola, barbabietola fermentata e wasabi” Passando ai secondi, troviamo una tartare di fassona servita con salsa olandese al polline ed una ceviche di tonnetto con mosto di fico e salsa di peperoncino habanero fermentato. Particolare attenzione alle pietanze vegetali. “Da sempre serviamo il carciofo alla giudia, che sbollettiamo prima di passare alla frittura a 180°. Lo serviamo con una buccia di limone e pepe di cubebe, dal sentore leggermente mentolato” A chiudere, una cheesecake basca con mosto di fichi. “Il nostro auspicio – conclude Alessandro Leone – è che i clienti di Mater Bistrot provino una esperienza culinaria lontana dagli schemi. Rilassati, in un ambiente altrettanto lontano dagli schemi. Alla ricerca dell’essenziale, perché la vera eleganza è semplice e spontanea. E non ha bisogno di orpelli e artifici

 Pesca di Prato, un viaggio tra passato e presente

Gelato alla Pesca di Prato, il nuovo affianca la tradizione

Un dolce che racconta un territorio, un gelato che ne rinnova la narrazione. A farsene portavoce, la Pasticceria Nuovo Mondo di Paolo e Andrea Sacchetti e Badiani Gelateria di Paolo Pomposi, punto di riferimento per il gelato artigianale sin dal 1932. Dalla collaborazione di queste due eccellenze toscane è nato il gelato alla Pesca di Prato.  “La Pesca di Prato – dichiara Paolo Pomposi – rappresenta un patrimonio gastronomico che merita di essere raccontato anche attraverso il nostro gelato. Ci metto dentro la pesca frullata, per ricrearne il sapore e dare vita ad un gusto che sorprenda”. Novità e tradizione insieme, Pesca di Prato è un nuovo modo di vivere la tradizione.

Pesca di Prato, simbolo di una città

Perché di tradizione si parla, la prima volta che Pesca di Prato è stata servita risale all’Unità d’Italia. “Nel corso di una cena tra massoni per festeggiare la raggiunta Unità racconta Paolo Sacchetti il locandiere ha servito due palline di pane dolce inzuppate in una bagna all’alchermes, con sopra una ciliegia” Un dolce ormai fatto dappertutto in Italia, ma le cui origini sono rigorosamente pratesi. Tornato a nuova vita, oggi è una delle creazioni più rappresentative di Pasticceria Nuovo Mondo. La Pesca di Prato è parte della mia storia personale e del lavoro della mia famiglia. Un simbolo che parla di Prato, della sua gente e delle sue radici. Vederla oggi reinterpretata da un maestro gelatiere come Paolo Pomposi è motivo di grande orgoglio”

Componente alcolica, elemento irrinunciabile

Tanti sono i modi di fare questo dolce, dalla Pescamisù (che prende ovviamente spunto dal tiramisù) alla versione al cioccolato o con lo zabaione oppure all’arancio. Paolo Sacchetti di Pasticceria Nuovo Mondo unisce le due semisfere di 12g di soffice pasta brioche, bagnate in 12g di Alchermes, con una delicata crema pasticcera. “Da anni la pasticceria italiana ha diminuito la componente alcolica. Dovuto al fatto che l’alcol non è più necessario a conservare i dolci come in passato, quando mancavano i frigoriferi. Ma la componente alcolica rimane comunque importante, nei dolci da freschezza e predispone lo stomaco al consumo. Perciò le mie pesche hanno una inzuppitura sui 14°”

Un dolce che travalica i confini

E’ un dolce che ho portato tante volte in televisione – prosegue Paolo Sacchetti – addirittura una volta la televisione britannica è venuta fino a Prato a fare un servizio sulla mia pasticceria” Un dolce, la Pesca di Prato, che ha infatti da tempo travalicato i confini regionali e nazionali. Come ricorda lo stesso pastry chef. “Nel 2008 facemmo una scuola di pasticceria a Prato in collaborazione con il Consorzio Pasticceri Pratesi ed invitammo un grande pasticciere spagnolo. Durante la cena, ogni partecipante presentava un proprio dolce di battaglia, ovviamente io presentai le pesche. E lui disse che le faceva quando era apprendista” Notorietà certamente gratificante, ma Paolo Sacchetti rimane fedelmente ancorato alle sue origini toscane.

Paolo Sacchetti, dal 1989 punto di riferimento a Prato

Classe 59, fiorentino di nascita e pratese di adozione, nel 1976 si diploma perito meccanico per accontentare il papà che lo sogna dipendente della Nuova Pignone. Ma la passione per i dolci, che si trascina sin da bambino, emerge prepotentemente. “Negli anni 80 ho fatto esperienze in diverse pasticcerie fiorentine, diventando anche primo pasticciere alla Pasticceria Barunci che oggi purtroppo non esiste più” Poi, nel 1989, la svolta con l’apertura della sua pasticceria. “A Prato ormai le pasticcerie avevano ridotto la produzione, che nel pomeriggio finiva nel congelatore. Ho portato un nuovo mondo, sono stato il primo a fare la pasticceria mignon. E ho inventato un cremino, che cuocevo a ritmo continuo. E’ stato la mia fortuna

Mai restio alle novità, dal Biscotto del Papa al Panettone a bauletto

Storico Vice Presidente di AMPI, nella associazione fondata nel 1993 da Iginio Massari è cresciuto professionalmente dimostrandosi mai restio alle novità. “Ho ideato un pan di spagna farcito con una specie di crema chantilly, per l’apporto contenuto di panna. Inzuppato con liquore al chassis e fragola frullata, viene farcito di pezzi di frutta fresca e brevemente congelato. Quando si va a mangiarlo, alla cremosità della crema pasticcera si aggiunge la dolcezza del pan di spagna bagnato. Cose oggi normali, ma trent’anni erano una novità” Tra le altre, anche il Biscotto del Papa ideato in occasione della visita di Papa Francesco a Prato. Ma soprattutto un panettone del quale è molto orgoglioso. “Vent’anni fa – conclude Paolo Sacchetti – facevo un panettone a bauletto con i fichi secchi di Carmignano, le noci e sopra una glassa ai pinoli. Lo vendevo tutto l’anno, è stato un mio grande cavallo di battaglia

Rosa Grand, versatilità all’ombra della Madonnina

Rosa Grand, tre realtà complementari

Ne richiama addirittura i colori, con la sua facciata in marmo bianco e granito rosa. Centralissimo, a pochi metri (nel vero senso della parola) dal Duomo di Milano, Rosa Grand è struttura ricettiva con una offerta gastronomica versatile e completa. Tre realtà diverse ma complementari riunite sotto lo stesso tetto e aperte a tutti. Dal Grand Lounge & Bar, salotto urbano dedicato all’aperitivo ma attivo già dal momento delle colazioni, al Rose Pizza & More, pizzeria contemporanea ma informale. Fino al Ristorante Sfizio, rigorosamente rispettoso della tradizione ma aperto ad una visione contemporanea. Riunite nell’unico obiettivo di accontentare le esigenze di un pubblico variegato.

Tradizione lombarda, con qualche ritocchino

Vogliamo raccontare la tradizione culinaria milanese e lombarda, senza tralasciare i classici della cucina italiana. Con rigorosa osservanza dei canoni di ogni singola ricetta – racconta Chef Bruno Cefalà, da otto anni alla guida della cucina di Ristorante Sfizio di Rosa Grand – Non ha senso reinterpretare un piatto, se la tradizione lo ha fatto arrivare a noi già buono”. Il menù è quindi pensato tanto per il turista quanto per il cliente locale che va alla ricerca, ad esempio, di un risotto alla milanese fatto come si deve. Unica eccezione alla tradizione milanese è la costoletta, rivisitazione comunque della cotoletta. “Il taglio è quello tradizionale, un lombo di vitello alto tre centimetri e servito rosa al cuore. La cottura è rigorosamente nel burro chiarificato. A cambiare è la panatura, fatta con pane panko che limita l’assorbimento dell’olio nella carne e grissini homemade tipo pangrattato. Per creare una panatura croccante“.

Milano nel cuore, ma c’è anche il Raviolo dello Chef

Tutta la proposta di Chef Bruno Cefalà si basa sul concetto di “Km Italia”, riflettente una visione inclusiva della filiera corta. La selezione degli ingredienti privilegia la prossimità geografica, con la maggior parte dei prodotti provenienti da Lombardia e territori limitrofi. Con Milano nel cuore, Ristorante Sfizio non trascura però i piatti che hanno fatto la storia della cucina italiana. Ecco allora che in carta si trova, oltre al classico risotto ai pistilli di zafferano, l’intramontabile tiramisù. “Savoiardi, mascarpone e caffè. Niente di più, niente di meno” Ricerca attenta di ogni ingrediente , spesso condotta personalmente dallo chef. Come dimostra il “Raviolo dello Chef”, proposta che ne tradisce le origini. (Bruno Cefalà è originario di Lamezia Terme, ma ormai milanese di adozione). “Il ripieno è a base di ricotta e n’duja di Spilinga, fichi e battuto di fave. Viene condito con una spuma di baccalà al finocchietto”.

Risotto alla liquirizia, esempio virtuoso di economia circolare

Ogni piatto riflette una cura estrema per il dettaglio, con un approccio che mira ad una sostenibilità concreta. In una proposta creativa come il risotto alla liquirizia e gambero rosso di Mazara del Vallo, ogni elemento viene nobilitato senza sprechi. E diventa un esempio virtuoso di economia circolare. “La polpa del gambero – spiega Chef Cefalà – viene marinata e messa cruda sul risotto mentre il carapace, insieme a sedano, carote e cipolle, viene fatto andare in pentola con acqua e ghiaccio per fare una classica bisque che bagna il risotto. La polpa della bisque che rimane viene messa in forno, seccata e da essa ricavata una polvere con la quale viene cosparso il risotto”.

Mio Inizio, omaggio alle domeniche in famiglia

Tra i piatti signature, il “Mio Inizio”. Un piatto del quale Chef Bruno Cefalà va particolarmente fiero perché trae ispirazione dai ricordi di infanzia legati alla cucina della nonna e alle domeniche passante in famiglia da ragazzo. Un gesto familiare trasformata in una esperienza ricercata. In pratica, si tratta di una melanzana tagliata a metà, bollita e svuotata a mò di barchetta. Riempita con ragù a base di salsiccia fresca e orecchiette fatte a mano e saltate nell’olio, passa in forno a gratinare. Fuori dal forno, viene cosparsa con una colata di provola fusa. “Mio Inizio è un pezzo di cuore che metto nel piatto”. A completare l’offerta di Sfizio, proposte stagionali come le zucchine trombetta marinate con tofu, pomodorini e polvere di olive nere oppure tartare di branzino con mele verdi, pistacchi e salsa alle ostriche. Non mancano opzioni vegetariane e vegane, pensate per coniugare leggerezza e gusto.

Non solo Sfizio

Rosa Grand non è solo Sfizio Ristorante. Si parte con la colazione servita al Grand Lounge & Bar dalle 6:30 alle 10:30, aperta anche agli ospiti esterni su prenotazione. Oltre all’ampia selezione di pasticceria, spiccano yogurt, marmellate, composte e formaggi lombardi. Per un inizio all’insegna del gusto e dell’autenticità. Avete voglia di pizza? Pronto ad accogliervi, c’è il Roses Pizza & More, la pizzeria contemporanea dall’ambiente conviviale e informale affacciato sulla storica Piazza Beccaria. Con sempre tanta attenzione alla leggerezza, gli impasti sono realizzati con farina di soia. Iconica, la “Rosa Grand”. “Infornata con il solo pomodoro. vengono aggiunti a freddo il crudo di Parma DOP, mozzarella di bufala, funghi porcini freschi saltati e rucola. Una delle primissime pizze messe in carta, che portiamo avanti tuttora”. Ma la giornata non finisce qui. Per un cocktail prima di cena, si fa tappa ancora al Grand Lounge Bar.

Grand Lounge Bar, omaggio a Milano

Il menù cocktail è strutturato intorno ad una idea tanto semplice quanto efficace, raccontare Milano attraverso i suoi quartieri. “La drink list è un omaggio a Milano spiega il Bar Manager Alessio Mei – Ognuno dei dieci cocktail prende nome da un quartiere della città”. Accanto a ciascun drink, una breve narrazione introduce il quartiere creando un ponte tra gusto e geografia. Tra le proposte signature più rappresentative, ovviamente “Duomo”. Un cocktail, dal finale deciso e persistente, che ruota attorno ad una base di gin speziato impreziosito da una nota di wasabi. “Di fondo è un Martini shackerato ma al posto del gin classico abbiamo messo gin infuso al wasabi e un bitter al pompelmo. Ideale per aprire lo stomaco, insieme a qualche stuzzichino proposto dal bar come tartellette con tartare di salmone o paninetti alla zucca farciti di formaggio”.

Un viaggio gastronomico che riempie la giornata

Nella drink list, tra gli altri, anche “Sempione” e “Martesana”. Nel primo, le note balsamiche del basilico si fondono a note agrumate e sfumature vegetali. “Utilizziamo una vodka infusa al lemon grass e liquore al sambuco. E’ un cocktail molto fresco che si abbina bene ad una tartare di ricciola e a tutti i crudi di pesce”. Il secondo è una rivisitazione di un Old Fahioned. “Fatto con whisky italiano e bitter alla genziana, si abbina a carni importanti come agnello e selvaggina.” Una particolarità, whisky, vodka e gin sono tutti di provenienza italiana. Per gli amanti del no alcohol la scelta è invece tra sciroppi fatti in casa, cordiali al cetriolo con limone, menta, zucchero e soda. Oppure un succo di curcuma con agave, lime, passion fruit e kombucha. “Negli anni l’aperitivo è cambiato molto – conclude Alessio Mei – Bisogna dare credito al mondo analcolico”. Rosa Grand, tre realtà complementari per un viaggio gastronomico che riempie la giornata.

Il Lughino, la creatività incrocia l’artigianalità

Il Lughino, tutto é fatto a mano

Nel locale di Chef Paolo Sanvito, tutto è fatto a mano. A testimoniare l’estrema freschezza dei piatti e l’artigianalità che contraddistingue il quotidiano lavoro della cucina, mancano impastatrice e congelatore. Valori fondanti del ristorante, che fa uso esclusivamente di ingredienti vegetali, sono sostenibilità nei confronti dell’ambiente e rapporto diretto con i piccoli produttori certificati biologici. Riso e molti legumi, per esempio, provengono dal Pavese mentre le farine da uno storico mulino a pietra nel cuore delle Langhe. Un locale, Il Lughino di Via Solferino 12 a Milano, nato per essere un posto unico nel suo genere. A cominciare dal nome, inventato per indicare un posto che non esisteva. “Esprime accoglienza e calore. Il Lughino è pensato – sottolinea Paolo Sanvito – per un consumatore attento e consapevole, per il quale l’artigianalità delle lavorazioni, l’impiego delle materie prime biologiche e la sostenibilità ambientale sono elementi particolarmente rilevanti

Menù mai scontato

Il menù cambia spesso nell’arco della stessa giornata (Il Lughino è aperto dalle 11:30 alle 23:00), proponendo cibi sempre freschi. Protagonista è la lasagna, declinata in decine di varianti diverse nel corso dell’anno. Tutte a base vegetale e ispirate alla stagionalità. “Ogni giorno prepariamo tre o quattro tipologie diverse, per un massimo di venti porzioni l’una. Finite, si impasta di nuovo con ciò che la dispensa offre” Nulla è quindi scontato. Per orientarsi, una classica lasagna alla bolognese fatta con un ragù cucinato in maniera tradizionale ma con un ingrediente non convenzionale come il granulare di soia. Oppure quella alle melanzane con aggiunta di pomodoro e mentuccia fresca. Per salire di intensità, quella con la cipolla. “Nel primo strato mettiamo la cipolla bianca cotta a lungo perché resti morbida e delicata. Nel secondo mettiamo il fagiolo nero cotto e frullato, in aggiunta alla besciamella che prepariamo con latte di avena”

Lasagna, piatto cardine

Se finite, nessun problema. Si può trovare la versione con zucca, besciamella vegetale e tofu affumicato o ancora quella con melanzane grigliate, crema di ceci e basilico fresco. Ad accompagnarle, il coperto consistente in pane fatto in casa e impastato a mano con farina integrale e lievito madre. “Lo prepariamo in in tre versioni, semplice, alle olive, alla noci e uvetta” La lasagna rimane quindi a tutti gli effetti il piatto cardine della proposta de Il Lughino. “La lasagna mi ha sempre accompagnato, è la prima immagine che io ho di me in cucina. Una macchinetta al tavolo, mia mamma che tira la pasta, io che la aiuto a mettere il ragù nelle lasagne. Ci definiamo lasagneria artigianale, non per questioni di marketing ma perché la lasagna rappresenta veramente l’essenza di me e della mia cucina.”

Lasagneria artigianale certamente, ma c’è tanto altro

Ma se definire Il Lughino lasagneria artigianale è corretto, può risultare limitativo di una offerta variegata e sempre gustosa. Non si può non menzionare, tra gli antipasti, la delicatissima insalata russa o il cipollotto bianco novello arrosto con purè di fave. “Strizza l’occhio alla tradizione del Sud. Sorprendente, per chi ama i sapori forti “ Se si vuole rimanere tra i primi, si può gustare un raviolo con ripieno di erbette, tofu e anacardi accompagnato da peperoni, zucchine, cipolle e carote serviti alla julienne. Oppure fusilli di grano antico in salsa di noci ma anche una sfogliatina di crespelle di farina di ceci e scarola. Senza dimenticare la millefoglie di melanzane, zucchine, pomodori e tofu, versione alternativa della parmigiana. Melanzane e zucchine vengono prima fritte, poi assemblate insieme al pomodoro. Mentre al posto della mozzarella metto il tofu fatto in casa, mischiato con un poco di anacardi”

Roveja, la particolarità

E’ ora la volta dei secondi, tra i quali non si può non citare il mondeghilo servito con fagiolini cornetti in umido. “Reinventato, lo cucino un ragù bianco con soia e seitan. Quando è insaporito, dopo un’ora di cottura, aggiungo l’impasto. Fatto con verdure, pangrattato, frutta secca, limone, prezzemolo e un poco di farinata di ceci. Morbido e profumato, viene servito su un giardinetto di porri” In alternativa, arrosti di seitan e tofu alla piastra. E soprattutto legumi, che Paolo Sanvito sperimenta in varie forme. “L’Italia è piena di legumi straordinari. Le cicerchie, per esempio, si possono frullare in poco olio evo e un pizzico di aglio che da una marcia in più. A volte le finisco con salvia e pomodoro” Una particolarità, pressoché rara a Milano, la roveja. “Una autentica scoperta, con la farina di roveja preparo un rotolo di spinaci e porri dal gusto veramente intenso”

Tiramisù la sorpresa, semifreddo di castagne l’orgoglio

In conclusione, i dolci. Si spazia dalla torta di mele, con aggiunta di nocciole e farcitura di crema al cocco, al pan di spagna con farcitura di crema di mandorle e frutta fresca messa al momento. Fino alla torta paesana ricoperta di cioccolato caldo e la torta di albicocche con granella di mandorle nell’impasto. Se si cerca freschezza, un gelato alla vaniglia e mandorla con lamponi e mirtilli freschi. Sorprendente il tiramisù. “Ho creato una crema con latte vegetale e frutta secca. Sostituisce validamente il mascarpone e appaga chi cerca la complessità del tiramisù Orgoglio di Paolo Sanvito è però il semifreddo di castagne. “Utilizzo il 70% di castagne, zucchero di canna grezzo, cacao, cioccolato, liquore all’amaretto. E poca margarina fatta con burro di cacao e semi di girasole” Cosa altro dire? Il Lughino è piacere puro, la creatività sposa l’artigianalità più vera. ”Venire da Il Lughino – conclude Paolo Sanvito – deve essere una festa, appagamento non solo del palato

Mio Lab, drink list tra tradizione e innovazione

Mio Lab, una storia lunga più di venti anni

Una storia lunga, da più di 20 anni Mio Lab porta avanti un discorso di internazionalità basata su capisaldi come Negroni, Americano, Bellini, Bloody Mary. “Siamo da sempre apprezzati per il nostro Bloody Mary, che facciamo anche in versione rivisitata con il pomodorino giallo e la mostarda in grani – afferma Alessandro Iacobucci Vitoni, da sette anni Bar Manager di Mio LabMa anche per la particolarità di impiegare sode realizzate da noi nell’Americano e nel Negroni, quest’ultimo fatto solo con gin italiano” Una storia importante, in linea con il percorso compiuto da Alessandro Iacobucci.

Alessandro Iacobucci, Bar Manager di Mio Lab

Affascinato sin da bambino dalle livree bianche dei barman, intraprende molto presto la strada della mixology. Dopo l’istituto alberghiero e alcune esperienze sulle navi da crociera, approda alla corte di Antonio Beccalli. La location è il Belmond Hotel Splendido di Portofino, dove si ferma quindici anni. “Sono stati – ricorda il responsabile del cocktail bar di Park Hyatt– quindici anni bellissimi, a fianco di un barman che a 70 anni stava ancora dietro il bancone. E dal quale ho imparato tantissimo. Oltre ad avere avuto la possibilità di viaggiare per il mondo, nei quattro mesi di pausa della stagione, e soddisfare così la mia sete di conoscenze” Conoscenze delle quali ha fatto tesoro, trasferendole nella esperienza a Mio Lab.

Bottigliera importante e attualizzata

Mi piace rimanere aggiornato, ho arricchito la bottigliera di 150 etichette” In questo aggiornamento il whisky ha avuto e ha tuttora uno spazio importante. “Al mio arrivo in in Mio Lab, in carta c’era un solo whisky giapponese. Oggi ne abbiamo sei tipi diversi” Complessivamente Mio Lab conta 300 etichette tra whisky, cognac, armagnac, porto, rum, grappe e liquori. E altro, come tequila e mezcal. “Tequila, mezcal e rum stanno avendo un ritorno importante, soprattutto il rum che sta vivendo una seconda vita”

Classic Collection e Contemporary Collection, freschezza prima di tutto

Alessandro Iacobucci e Mio Lab rinfrescano così la drink list. Attraverso l’introduzione nella Classic Collection di due categorie, Mule e Sour, che affiancano Negroni e Americano e un arricchimento della Contemporary Collection con due nuovi drink. A cavallo tra rispetto della tradizione e voglia di innovazione. “Abbiamo rivisitato il classico Mule, sostituendo la vodka con la tequila o con il rum” Tra le novità, George. Composto da tequila infusa al cetriolo, lime, menta e ginger beer. Cetriolo e menta accendono la bevuta di note verdi e balsamiche, il risultato è un cocktail dissetante” Omaggio ad un simbolo del Made In Italy è invece Mule 1525. Gli ingredienti sono Flor de Caña 7 anni, lime, ginger ale e Disaronno. “Rum e Disaronno si fondono in un equilibrio morbido e speziato, inaspettato. Un tributo a Disaronno nell’anno in cui ricorrono i 500 anni dalla nascita”

Mondo Sour, le novità

Il Souer è l’arte del bilanciamento. Anche se si beve tutto l’anno, Mio Lab ha introdotto tre varianti nelle quali alcol, limone ed albume danno vita a cocktail cremosi ed avvolgenti. Il Pulcinella è composto da un gin glass infuso allo zafferano, limoncello, limone, sciroppo di vaniglia e albume. Nel Mayatl protagonista è il mezcal accompagnato da limone, sciroppo di pepe verde, zenzero, basilico e, naturalmente, albume. “Un gioco di contrasti, nel quale l’affumicatura del mezcal dialoga con la freschezza del basilico e la vivacità dello zenzero” Decisamente particolare è lo Zang’s. Un bourbon whiskey aromatizzato al croissant miscelato a limone, miele, lamponi, bitter al cioccolato, albume. “Particolarità dello Zang’s è proprio questo bourbon aromatizzato che lascia un bel retrogusto di croissant. Mentre miele, lamponi e bitter al cioccolato rendono il drink corposo ma molto fresco. Agrumato, aromatico e amaro al punto giusto, è perfetto a ogni ora del giorno”

Gongfu Cha, omaggio alla cerimonia del tè

Nel suo viaggio creativo, Mio Lab prosegue con due nuovi cocktail che arricchiscono di suggerimenti internazionali la Contemporary Collection. Il primo è Flower Moon, composto da Gin Roku infuso al lampone e lemongrass, maraschino, liquore di violetta e pompelmo rosa è un cocktail floreale e fruttato, servito in coppetta con bordo salato. “Una esperienza aromatica che richiama i profumi di un giardino fiorito in primavera” Decisamente da provare, il Gongfu Cha a base rum. Un richiamo ed un omaggio, in versione cocktail, alla cerimonia del tè cinese. Servito, ovviamente, in una tazza da tè di colore verde. “E’ un drink leggermente agrumato con una nota bitter, particolarmente apprezzato dalla clientela internazionale che vuole provare qualcosa di diverso. Oltre al rum, usiamo cartizze, limone, bitter all’arancia e un infuso di tè bianco al lemon grass

Signature e analcolici, punti fermi

Punti fermi della drink list di Mio Lab rimangono comunque i signature. Uno di questi è Mr Smith. Ispirato dal Negroni, è preparato con whisky invecchiato 18 anni, Bitter Campari, vermouth, sherry e soda. “Dedicato al primo proprietario della Distilleria The Glenlivet” Il Negroni è costante fonte di ispirazione, in lista si trovano sovente nella stagione autunnale un Negroni o un Americano in barrique. Non meno importanti sono i drink analcolici a base di pesca, arancia, limone, anguria, mango, lime. Tra i quali, il NR.1 a base di anguria è molto apprezzato dalla clientela. Fresco, con una nota sour data dal bitter analcolico. La preparazione viene fatta al mattino per la giornata, il giorno dopo si fa tutto da capo.Usare solo prodotti freschiconclude Alessandro Iacobucci Vitoni – è una nostra prerogativa, per dare sempre un servizio top all’ospite. Perché la gestione dell’ospite è importante, l’ospite si deve ricordare della esperienza vissuta a Mio Lab”

Succulenta, ristorante che non segue le mode

Succulenta, i fornelli della nonna sono l’ispirazione

Una storia che comincia in terra di Puglia, tra i fornelli della nonna che, giorno dopo giorno, imbastisce pranzi e cene per dieci figli sempre con lo stesso amore. Proseguendo con la mamma chef e il papà pizzaiolo, sullo sfondo il ristorante di famiglia dove Matteo Mottola svolge inevitabilmente i primi passi nel mondo della ristorazione. “All’inizio – racconta Matteo Mottola, oggi titolare di Succulenta in P.zza VI Febbraio 16 a Milano – era una piccola osteria che faceva anche da bar, potevi ordinare piatti caserecci come trippa e polpette” Poi, quindici anni fa, l’arrivo a Milano con esperienze da Sorbillo e Pizzium come pizzaiolo. “Sono stato fortunato, ho avuto la possibilità di crescere e sperimentare, da Sorbillo ho anche avuto la possibilità di curare l’apertura del punto vendita in Duomo

L’importanza della famiglia

Scegliere questa strada è stato naturale, sono cresciuto in cucina seguendo le mani di mia mamma dalla quale ho ereditato la velocità e la capacità di organizzazione. Così come da mio papà ho appreso una certa giusta severità per l’ordine e la pulizia. Dalla cucina, a fine servizio, non va via nessuno fino a quanto non è tutto a posto e pulito” Ma non meno importante è la figura della nonna materna, della quale Matteo conserva un ricordo indelebile. “Non c’è mai stato giorno nel quale non preparasse le pietanze con invariato piacere e amore per l’impiattamento. Indistintamente che si trattasse di pasta e ceci piuttosto che fave e cicoria, pasta e patate piuttosto che il brodo con pezzi di carne di maiale. O del ragù, per il quale si alzava alle sei di mattina per preparalo con tanta cura

Un legame profondo con la cucina di casa

Piatti semplici, senza fronzoli. La stessa semplicità che oggi Matteo Mottola ripropone nel suo Succulenta, inaugurato tre anni fa. Ventotto coperti interni, una ventina nel dehor esterno. A dominare la sala interna, le pareti con due gigantografie. Una riproducente una strada di Sorrento, l’altra riproducente il centro medievale di Sovana che tanto gli ricorda una piazza di Villa Castelli, il paese natio. Già, perché i ricordi di infanzia sono una componente importante nella proposta offerta da Succulenta. Ogni ricetta racconta infatti il legame profondo con la cucina di casa, realizzata con materie prime selezionate. Per approdare ad un viaggio culinario che spazia nei sapori del Sud Italia, con qualche divagazione. Più per motivi personali ed affettivi che per una precisa scelta tecnica, come vedremo più avanti.

Spazio anche per la sperimentazione, Regina Succulenta l’esempio

La mia idea di cucina fonde ricordi e tradizioni di famiglia, Ma anche tanta ricerca, mi piace studiare impasti, tipologie di farina e lavorazioni diverse. Mi piace sperimentare, perché non si finisce mai di imparare” La pizza ricopre ovviamente un posto importante nella proposta di Succulenta, tra le ventidue pizze e i due calzoni presenti in carta spiccano Regina Succulenta e Genovese Napoletana. La prima con crema di patate, provola affumicata di Agerola DOP, guanciale croccante, pomodorini del Piennolo e scaglie di cacioricotta. La seconda invece ripropone sulla pizza il ragù bianco di carne e cipolle, tipico della cucina partenopea. “Il nostro impasto è un impasto molto particolare, è una biga viene preparata con farina, acqua e lievito madre. Il giorno dopo viene terminato con acqua e sale, stagliata in panetti per usare le palline dopo circa 13 ore. Con una lievitazione totale di circa 70 ore

Puglia e Campania, un viaggio tra i profumi del Sud

La cucina è un continuo viaggio tra Puglia, regione natia di Matteo Mottola, e Campania. Pugliesi sono le orecchiette di Cerignola alle cime di rapa e le polpette al ragù preparate con carne rigorosamente Podolica. Campani sono gli ziti alla genovese realizzati con una specifica tipologia di manzo e la cotoletta alla napoletana preparata con un carré di maiale battuto, farina, uovo, pane e olio. Pietanze accompagnate da un Primitivo o un Negroamaro, giusto per rimanere in zona. Rigorosamente campani i dolci, tra pastiera, babà e delizia al limone. Ma non manca il classico tiramisù e la tartin di mele che omaggia la città di Milano. Anche qui spazio alla sperimentazione, ecco allora la cheesecake ai frutti di bosco rivisitata. “E’ fatta con more, mirtilli, fragole e lamponi freschi. Sopra aggiungo una fogliolina di basilico e lo zucchero a velo. Perfetta da abbinare ad una barricata od un passito”

Qualche piccola divagazione, tra passioni ed affetti

Non solo Puglia e Campania, in carta si trovano anche i fusilli alla n’duja realizzati con fusilli di semola di grano duro tirati a mano e prodotti a Gragnano. E, per rimanere in terra calabra, la Spirilunga. Pizza fatta con patate al forno, l’immancabile n’duja e sbricciolata di taralli. Ma se l’amore per il Sud Italia è cosi prorompente, perché in carta si trovano piatti di estrazione laziale come spaghetti alla carbonara e spaghetti alla amatriciana? “Mi piace il maiale, preparo anche un raviolo ripieno di carbonara con sopra parmigiano reggiano e guanciale croccante” Può poi sembrare strano trovare pietanze sarde come cullurgiones, proposti anche nella variante con ripieno di patate e menta, e seadas. ma c’è un motivo molto preciso. “Mia moglie è sarda, seadas è il suo dolce preferito. Questi piatti sono un omaggio a lei e alla sua regione di provenienza” Succulenta, un ristorante che non segue le mode mai i sentimenti.

Cantine Colosi, viticoltura eroica

Cantine Colosi, tutto parte da Salina

Il primo a commercializzare il vino è il bisnonno, con il suo carretto porta in giro il vino acquistato dai vignaioli locali. Ma ad avviare una vera e propria produzione sono il nonno Pietro ed il papà Piero, entrambi originari di un paesino sopra Milazzo. Con alcuni studi enologici alle spalle, gettano le basi dell’azienda. “La zona di Messina era poco vocata alla produzione di vino – racconta Pietro Colosi, attuale titolare di Cantine Colosi insieme alla sorella Marianna – Così mio nonno comincia ad interfacciarsi con i contadini dell’Isola di Salina e scopre una intensa produzione di Malvasia delle Lipari.” Da qui, l’acquisto dei primi terreni nell’isola eoliana verso la fine degli anni ‘70.

La prima vendemmia nel 1983

Dopo essersi dedicato per un anno alla coltivazione della Malvasia, il nonno inizia a coltivare Inzolia, Cataratto, Nerello Mescalese e Nerello Cappuccio. Una ricerca continua, anche di terreni coltivabili, che negli anni ha portato, grazie anche agli investimenti di papà Piero, ad avere nell’Isola di Salina circa 13 ettari vitati ed una produzione intorno alle 500.000 bottiglie annue. “La prima vendemmia ricorda il titolare di Cantine Colosi – è del 1983, il risultato è stata una Malvasia declinata in due versioni. Una classica, surmaturata in pianta, l’altra passita, prodotta con appassimento dell’uva sui cannizzi per circa venti giorni perché perdesse il 30-40% del peso” Presentate due anni dopo al Vinitaly, negli anni sono diventate un punto fermo della produzione dell’azienda siciliana.

Secca del Capo, un successo che compie dieci anni

Secca del Capo, del quale festeggiamo i dieci anni di produzione, è il primo vino prodotto in collaborazione con mio papà. Si tratta di una Malvasia secca vinificata a Capofaro, dove abbiamo tuttora la cantina che si trova sotto il Monte delle Felci” Un terreno molto vocato alla coltivazione della Malvasia, la raccolta delle uve viene infatti anticipata all’ultima settimana di agosto. “Ciò ci permette di avere ancora una buona componente acitica, particolare che invece va a scemare con l’avanzare della maturazione. Partiamo quindi con la macerazione a freddo, poi inoculiamo lieviti che sviluppano note varietali capaci di risaltare i profumi dell’uva” Fermentazione a secco con gli zuccheri del mosto completamente consumati, travaso e successivamente passaggio in acciaio dove il vino affina per qualche mese. “Imbottigliato a fine febbraio-inizio marzo, sosta in azienda una settimana prima di essere etichettato e disposto orizzontalmente nel cartone”

Anche in versione passita

Nel caso della Malvasia Passita, la fermentazione dura invece 15-20 giorni con il lievito che lavora piano piano in quanto il silos è collegato ad un frigorifero con temperature e velocità di lavorazione preimpostate. L’uva viene raccolta quinci giorni prima rispetto a quella destinata alla Malvasia Naturale, ma viene fatta asciugare per un tempo più lungo.“Quando decidiamo che il livello zuccherino è arrivato al punto giusto, la temperatura viene portata a zero gradi così che il lievito smetta di lavorare e rimanga sul fondo. E il vino rimanga dolce. Facciamo quindi un travaso per eliminare lo sporco, al quale segue affinamento per un anno in acciaio. Al contrario della Malvasia Secca, per la quale il lievito viene mantenuto ad una temperatura più alta di 17-18° e la fermentazione continua fino a quando tutti gli zuccheri presenti sono consumati ed il prodotto va a secco”

Alla base della qualità, la scarsità

Rispettosa dell’ecosistema circostante, Cantina Colosi possiede una cantina di vinificazione immersa nei vigneti e parzialmente interrata come previsto dalle rigide normative dell’arcipelago eoliano. L’impianto del vigneto è realizzato a terrazze con i tipici muretti a secco, costituito da piccoli appezzamenti con filari disposti su terreni scoscesi e allevamenti a controspalliera con potatura guyot singolo. “Si lascia lo sperone per l’anno successivo con capofrutto che va in produzione per l’anno corrente – spiega Pietro Colosi – L’anno successivo, quando si fa la potatura invernale, il capofrutto che ha prodotto nella vendemmia precedente viene tagliato e lasciato a sperone. Mentre lo sperone precedente viene fatto crescere a capofrutto, lasciando tre gemme per andare a sviluppare i grappoli e non avere eccessiva vigoria. Essendo un territorio dove la resa non supera mai i 70 quintali per ettaro, per ogni ettaro mettiamo al massimo 7mila piante”

Un terreno difficile, inerbimento e sovescio le soluzioni

La difficile morfologia del terreno impone che le operazioni in vigna siano condotte esclusivamente a mano, impossibile effettuare irrigazione nel vigneto. “Le alte temperature e la conseguente siccità bloccano la maturazione delle uve, mantenendo piccoli gli acini e causando una bassa resa produttiva. Non potendo dare acqua alle piante (l’acqua che arriva a Salina attraverso le “navi dell’acqua” è riservata alla popolazione, in quanto clorata è inutilizzabile per l’agricoltura), utilizziamo alcune tecniche che ne impediscono la disidratazione. Attraverso l’inerbimento dell’intefilare, lasciamo crescere l’erba in altezza per poi trinciarla e creare un cotico erboso. Evitiamo così il surriscaldamento dello stesso e l’evaporazione dell’acqua dal sottosuolo. L’acqua viene recuperata attraverso il sovescio con le graminacee che, avendo radici fittonanti, aiutano il terreno a meglio assorbire l’acqua”

Monte Porri e Monte delle Felci, interferimento positivo

In compenso il terreno vulcanico è garanzia di mineralità. L’isola, la più lussureggiante dell’arcipelago eoliano, usufruisce infatti della presenza di ben due vulcani, entrambi spenti. Il Monte delle Felci, così detto perché l’antico cratere ospita un bosco di felci, e il Monte Porri, patrimonio dell’Unesco. “Il fatto che i due vulcani siano spenti da tempi diversi, fa sì che il terreno cambi notevolmente tra una pendice e l’altra. Monte delle Felci è un terreno molto ricco di sostanze organiche ed ossidi di ferro, molto indicato per coltivare la Malvasia. Monte Porri è invece un terreno più calcareo e sabbioso, indicato a coltivare le altre varietà” I venti che soffiano spesso sull’isola portano inoltre sui vigneti piccole percentuali di acqua marina che si depositano sulla buccia degli acini. “Interferiscono positivamente sul profilo gustativo del vino, donando una piacevole salinità”

Salina Bianco, vino estivo per eccellenza

Tra i vini prodotti, il Salina Bianco. Un vino molto fresco, indicato per la stagione estiva. L’uva viene raccolta alla mattina presto, raffreddata attraverso uno scambiatore, poi pigiata e introdotta all’interno di un silos a temperatura controllata di 14°-15°. La fermentazione dura venticinque giorni, una volta finita viene fatto un solo travaso. A seguire, il batonnage e il riposo sui lieviti. Viene quindi abbassata la temperatura a zero gradi per eliminare le particelle di sporco, filtrato nuovamente ed imbottigliato per circa 6 mesi. “E’ un vino da bersi giovane, abbinabile ad una tartare di cernia condita con olio, sale e un pizzico di pepe rosa. Magari sotto una tettoia, coccolati dalla brezza marina’’

Salina Rosso, blend senza tempo

Tra i rossi, spicca invece il Salina Rosso. Un blend di Nerello Mescalese e Nerello Cappuccio prodotto da Cantine Colosi dal 1985. “Raccogliamo e vinifichiamo insieme le uve, che non vengono raffreddate ma lavorate a temperatura ambiente. Quindi le mettiamo nel silos per farle fare una classica vinificazione in rosso” Dopo la macerazione sulle bucce, parte la fermentazione alcolica per circa otto giorni a 20° con tre rimontaggi al giorno per evitare che il cappello delle bucce, spinto in alto dalla anidride carbonica, si secchi impedendo l’estrazione del colore. “Facciamo anche il deleistage, per ossigenare il vino che sta fermentando ed evitare così note di riduzione”. Eseguita la fermentazione alcolica ed effettuato il travaso per togliere lo sporco, parte la fermentazione malolattica. Al termine della quale, si travasa il vino in botte grande dove rimane sei mesi, poi filtrato e portato in imbottigliamento.

Guardiano del Faro, la scommessa

Un vino nato quasi per caso è invece il Guardiano del Faro. “E’ stato una scommessa, avevamo in produzione un vigneto che ci dava ogni anno uva spettacolare della varietà del Nerello Mescalese. Abbiamo così deciso di vinificare a parte” L’uva, prima dell’inoculo dei lieviti, viene raffreddata ancora di più, la macerazione è a freddo e poi a cappello sommerso. Quando il cappello non ha più anidride carbonica che lo mantiene, si continua la macerazione per una settimana. Affinato per un anno in barriques da 225 lt., 60% delle quali sono francesi mentre le restanti sono americane. “E’ un vino più strutturato rispetto al Salina Rosso, perfetto da abbinare ad un pesce stocco in ghiotta, un piatto tipico delle nostre zone

Dal 2020 ufficialmente biologici, mai usato fitofarmaci

Nel 2020 Cantine Colosi ha completato il processo di riconversione al biologico di tutti i vigneti. Mediamente i vini sono esportati per il 60% della loro produzione, con gli Stati Uniti mercato di riferimento nonostante la recente politica dei dazi da questi applicata. Fanno eccezione i vini di Salina, che vengono distribuiti metà nelle Isole Eolie e metà nel restante territorio nazionale. Presente sul mercato da 40 anni, nonostante i numeri non trascurabili, Cantine Colosi rimane fedele a pratiche tradizionali. “Da sempre biologici, non abbiamo mai usato fitofarmaci già in tempi non sospetti. Per questo – conclude Pietro Colosi lavoriamo ancora con la classica busta di zolfo e rame in polvere per poter limitare al massimo le infezioni