Gianni Canova, professore universitario, critico cinematografico, grande uomo di cultura. Ma soprattutto vincitore del premio come milanese dell’anno 2023, attribuitogli dai lettori di Mi-Tomorrow.

Professor Canova, contento del premio? Soprattutto perché parliamo di un non milanese.

«Credo che l’identità geografica di una persona non sia legata al luogo in cui uno nasce. Certo, lì ci sono le radici, ma come diceva Carmelo bene servono nella misura in cui fanno crescere la pianta e allontanano le foglie dal suolo. C'è una parte di me che si sente bergamasca, sono figlio di quella terra, ma la mia identità culturale, professionale, esistenziale è milanese».

Le piace Milano?

«Penso che non potrei vivere in nessun'altra città del mondo, salvo forse Parigi, ma adoro Milano».

Perché?

«Perché esprime un modello di città in cui i cittadini si mettono in relazione l'uno con gli altri, un modello assolutamente virtuoso per questo paese e per l’Europa. Ci fosse un po più di Milano, forse l'Italia sarebbe un paese migliore».

Può essere questo il motivo per il quale ha vinto lei rispetto agli altri? In fondo lei rappresenta questo modello di milanesità...

«Sì, il modello di milanese che vuol dire concretezza, serietà, coerenza, insofferenza per la burocrazia; ma anche visionarietà e capacità. Milano, mi limito al ‘900, è la città che ha ospitato e vissuto tutte le svolte, i momenti di rottura, di crescita di questo paese; tutto è partito da Milano, nel bene e nel male. Milano è la città che ha sempre anticipato le tendenze, le mode, individuato i nervi scoperti».

Come mai, secondo lei?

«Perché i milanesi sono intraprendenti. Se la cavano da soli, non aspettano; mentre in altre città, pur nobili, se c'è un problema me lo deve risolvere il sindaco, il presidente, il ministro, il politico amico. E poi chi vive qui assorbe questa questa dimensione di innovazione, un caso davvero unico».

Ma continuerà ad avere questo ruolo Milano o si evolverà in qualche modo?

«Io spero che continui ad averlo evolvendosi, perché un ruolo così riesci a mantenerlo soltanto se cambi, non puoi immobilizzarti o cristallizzarti dietro una maschera. Infatti Milano ha sempre avuto questo ruolo perché è continuamente cambiata, è stata capace di anticipare i tempi, progettare il nuovo, non si è mai fermata. C'è un dinamismo incredibile che percorre la città, che genera un ecosistema incredibile, la bellezza della modernità ce l'abbiamo noi».

La modernità è anche quello che ha identificato questi sei anni del suo rettorato alla Iulm che scadrà quest’anno.

«Potrei rinunciare a tutto, a tutto, ma non a fare lezione. E difatti anche durante il mio rettorato, ho proseguito ad insegnare. Credo che sia uno dei privilegi e delle cose più belle. E uno dei misteri più belli. Non lo so se il mio elettorato è stato all'insegna della modernità, ma posso dire che ho cercato di non perdere il contatto con gli studenti».

Quanto mancherà loro il rettore Gianni Canova?

«Questo non lo so. Io chiederò di poter continuare a insegnare ancora per due, tre anni, finché sarò lucido. In questa università c'è questa possibilità, filosofia americana».

Si spieghi

«In America non c'è lo Stato che ti dice ‘da oggi tu vai in pensione’. Se una comunità scientifica ritiene che un professore abbia ancora delle cose da dare può continuare a insegnare finché i colleghi, l'università e gli studenti ritengono che le sue lezioni siano degne di essere frequentate; è una forma di libertà, mentre gli italiani hanno paura della libertà».

E la Iulm non ha avuto paura della sua libertà, tanto che si è inserita in un quartiere, la Barona, non proprio considerata la creme di Milano.

«Dietro questa collocazione c’è un progetto di rigenerazione urbana molto ambizioso e radicale. Quando Iulm è arrivata qui, questo era un quartiere poco frequentabile dopo le 19; adesso è un quartiere in piena espansione. Questa però è un po’ una peculiarità di Milano, anche il Politecnico si trova in Bovisa. Tutto questo ha contribuito a frenare quel rischio che c'era che anche da noi si creassero delle banlieue stile Parigi. Non che non ci siano problemi, ma sono meno virulenti che in altre capitali europee, proprio perché ci sono stati dei processi di rigenerazione urbana che non sono stati decisi a tavolino da un piano regolatore».

L’ultima cosa che farà prima della fine del suo mandato?

«Trasformare tutto il campus in un museo diffuso della comunicazione, per fare in modo che chi entra qui capisca che cosa si fa, che cosa si studia. Se il luogo in cui vivi è un luogo accogliente, gradevole, che ti comunica bellezza, che ti comunica pensiero, che ti comunica creatività, in qualche modo tu assorbi e riesci, a tua volta, ad essere pensante, creativo e amante del bello. Questa almeno è la filosofia su cui ci muove».

Ma secondo lei questa tipicità milanese si può riproporre questo modello in altre città, anche italiane?

«Sì, ma qui c’è un’intraprendenza da parte dei cittadini o degli imprenditori incredibile. Non puoi aspettare sempre lo stato o il comune o la regione; la ricetta la devi fare tu e poi devi essere anche un bravo cuoco nel cucinarla».

Piccola digressione in ambito cinematografico: corsi universitari sempre pieni, non altrettanto le sale cinematografiche. Come si spiega questo fenomeno?

«Dissento. Barbie, Oppenheimer, il film in bianco e nero di Paola Cortellesi... la gente non va a vedere i film in sala quando i film sono brutti; se ci sono dei film di valore invece ci va. Pensate a ‘Perfect days’ di Wim Wenders e ‘Il ragazzo e l’airone’, cartone animato di Miyazaki; non sono due film leggeri, non sono gli Avengers e neanche Checco Zalone. Sono due film d’autore, complessi. Ma la gente va a vederli perché sono belli. Il pubblico è meno stupido e meno rozzo di quanto dicano certi soloni».

Ma i giovani vanno al cinema? O preferiscono le piattaforme di streaming?

«Ho il privilegio di essere a contatto con i ventenni e non è vero che passano la loro vita sui social e che sono perennemente connessi. Vanno al cinema, leggono libri, s’informano. Non c'è nulla che mi irriti di più di quei miei colleghi intellettuali che con disprezzo trattano i nativi digitali come dei rozzi barbari».

Due esempi di cinema a Milano: l’Anteo quest'anno festeggia 45 anni di vita e sta economicamente molto bene. Dall’altra parte, ha chiuso una sala storica come l’Odeon: come si fa a far sopravvivere il cinema a Milano?

«Con il modello Anteo, ovviamente; si costruisce una sala, si crea un pubblico e lo si fidelizza; offrendo ovviamente altri servizi oltre allo spettacolo cinematografico, perché la vita contemporanea è molto complessa. Quindi per convincere una persona, una famiglia, una coppia, un singolo cittadino, ad andare al cinema, e quindi uscire di casa, prendere un mezzo pubblico, posteggiare se viene con la macchina, eccetera, devi anche offrire la possibilità di bere l’aperitivo, cenare, creare eventi e così via. E l’Anteo ha fatto tutto questo, si è creato un'identità molto forte, cosa che le multisale tendono a non fare».

Ma in generale, come sta il cinema italiano?

«Stiamo sostenendo troppo la produzione di film, nel senso che secondo me siamo a 500 film italiani l'anno, molti dei quali nessuno va a vedere, mentre dovremmo sostenere di più, col denaro pubblico, sale che proiettano film di qualità. Sono anni che è fermo, ad esempio, il progetto del cinema Orchidea a Milano, vicino al bar Magenta; una sala storica, di proprietà comunale. Ecco, coi soldi delle nostre tasse, invece di produrre 500 film all’anno riapriamo una sala che, magari, fa vedere i film italiani, quelli di qualità, quelli che meritano. Purtroppo a Milano questo manca e questa è una delle cose che mi piacerebbe qualche amministrazione pubblica riuscisse a mettere a posto».

Tornando al personaggio Gianni Canova milanese, quali sono i luoghi che preferisce della città?

«A me piacciono molto i bar milanesi. C'è stato un periodo della vita in cui frequentavo molto il bar Basso e la Belle Aurore, che sta in via Giustiniano; un po’ bohémien, ma lo frequentavo perché era vicino alla sede, uno scantinato, della rivista di cinema che si chiamava Duel, che assieme ad alcuni amici avevo fondato. Una rivista che andava in edicola senza avere un editore, eravamo una piccola cooperativa di giornalisti, e vendevamo 15.000 copie a numero senza avere pubblicità. E da lì sono usciti l'attuale direttrice del Festival del Cinema di Roma, Paola Malanga, l'attuale direttore artistico del Festival di Berlino Carlo Chatrian, l'attuale direttore del Festival di Locarno, Giona Antonio Nazzaro; e mi fermo qua, da uno scantinato in via Giustiniano, negli anni 90 a Milano, al cinema d’elite. E pensare che facevamo tutto per passione, perché nessuno di noi ha mai guadagnato una lira per vent'anni. Poi però ti costruisci le carriere, vai a dirigere a Berlino e a Roma».

La cosa che le piace di più di Milano e la cosa che le piace di meno.

«La cosa che mi piace di meno è quando il milanese fa il Bauscia, il ‘Ghe pensi mi’. Invece la cosa che mi piace di più è che siamo in una città che non ti fa vedere le sue bellezze subito, la devi conquistare, scoprire, spogliare a poco a poco. Può sembrare fredda apparentemente, ma quando scopri i suoi segreti è irresistibile».

Tornando al suo rettorato, la cosa che le è stata più a cuore?

«Rimettere lo studente al centro dell’università. Uno dei problemi di questo paese è che si fanno le cose non per chi ne usufruisce, non per gli utenti, ma per chi ci lavora dentro. La giustizia spesso la si struttura in funzione delle carriere dei magistrati e non in funzione di una giustizia giusta per i cittadini, stessa cosa per le scuole. Perché non si è mai fatta una riforma della scuola in questo paese? Abbiamo ancora i programmi della riforma Gentile (datati 1923, ndr), perché tutti i governi pensavano soltanto alle carriere dei professori. Alla Iulm il tentativo è stato quello di partire dalle esigenze degli studenti e del mercato del lavoro, inventando anche nuovi corsi come quello in moda. Ma abbiamo anche un grave problema di aule, infatti abbiamo appena acquisito  due nuovi edifici, uno dei quali è proprio qui adiacente al campus. Abbiamo chiuso la gara fra quattro grandi studi di architettura, sarà un edificio con altre tre aule da 300 posti e un anfiteatro, dovrebbe essere pronto per la fine del 2025».

Lei ha scelto come parola dell'anno ‘Avventura’. Cosa si sente di consigliare a chi verrà dopo di lei? E, soprattutto, qual è l'identikit del rettore perfetto per il dopo Canova?

«Ventura è il participio futuro del verbo e significa ciò che avverrà, ciò che sta per avvenire, ciò che non è ancora accaduto; è un invito a guardare oltre, avere il coraggio di osare in un paese che fa molta fatica a pensare al futuro. Viviamo in un paese che tende sempre più a burocratizzare l’insegnamento; il ministero vorrebbe che io pubblicassi prima ancora di iniziare tutti i contenuti delle mie lezioni, tutto quello che dirò, come se l'insegnamento fosse travasare un sapere precotto e precostituito dalla mente del docente agli studenti, come fossero vasi da riempire. Secondo me non è così. Secondo me l'insegnamento che funziona è un insegnamento in cui io parto, poi vedremo dove arriveremo. Se l'insegnamento funziona, diventa un'avventura che coinvolge gli studenti. L'aula reagisce, ti pone domande, interrogativi e magari ti porta da un'altra parte. L'identikit di chi verrà dopo di me? Auspico sia una persona che lavori per l'istruzione e non solo per se stesso. Ovvio, ogni essere umano lavora anche per sé, per carità. Sarebbe ipocrita e meschino negarlo, ma credo che alla iulm e a questo paese servano persone che, lavorando per sé, lavorino però anche per istituzione e che abbiano a cuore l'istruzione che hanno l'onore e l'onere di guidare. Ci sono troppi esempi in questo paese di uomini politici, amministratori, direttori che spesso lavorano più per sé che per le istruzioni che rappresentano. Spero che questo non accada a chi verrà dopo di me».